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domenica 6 novembre 2011

Capitolo 19 - Il catalizzatore


Il treno correva sui binari, sfrecciando nel silenzioso paesaggio montano. Le Alpi, come denti appuntiti di una creatura dormiente, mangiavano il cielo, coprendo gran parte del panorama. Hans guardava fuori dal finestrino, senza registrare davvero il mondo attorno al convoglio. L’umidità gli si era infilata dentro, ma era tollerabile. La sua mente – il suo dono – era proiettata oltre le montagne, era focalizzata su quella creatura. La creatura verso cui stava andando.

La Cosa-Casa osservava con i suoi tanti occhi lo spettacolo della paura umana. Piccole formiche terrorizzate, consapevoli di essere a un passo dalla morte. Si agitavano, confusi e disperati. La Cosa-Casa avanzò, indifferente. Dall’alto vedeva che alcuni di quegli esserini si erano fermati e guardavano nella sua direzione. Indossavano vestiti pesanti, elmetti, protezioni e imbracciavano armi. Armi inutili, come la Cosa-Casa sapeva. Ma non lo sapevano loro, abituati a considerarle estensioni del proprio corpo.
La creatura avvertiva dentro quei pazzi la determinazione marziale. Sentiva quello che avevano passato in altri campi, guardava nelle loro anime le battaglie a cui avevano preso parte. Nulla in confronto a ciò che li attendeva ora.
I militari alzarono i fucili e le pistole e le mitragliatrici. Fecero fuoco tutti insieme, in sincronia perfetta. La Cosa-Casa non si fermò, mentre osservava i fiumi di proiettili sgorgare dalle canne delle armi. Diverse traiettorie terminavano sul suo corpo, tanto da sembrare prolungamenti del suo stesso essere. La Cosa-Casa in effetti inglobava e inglobava e inglobava. Tentacoli di piombo. A ogni colpo diventava più grande, sempre un pochino più grande. Ogni propaggine era nutrimento da parte di quelle armi inutili.

Le montagne si abbassarono, schiacciate dal peso del cielo. Diventarono colline sotto gli occhi di Hans. Il treno continuava la sua folle corsa, come se sapesse che qualcosa di incredibile stava succedendo nella città di destinazione. I binari laceravano il paesaggio, parevano ferite inferte da artigli di creature troppo grandi per appartenere a questa dimensione. Hans sentiva – il dono! – la forza del richiamo della creatura. Percepiva l’Idolo e Shlomo. Poteva quasi sentire la voce dell’Idolo, che lo invitava al suo destino.

Pian piano i tentacoli si assottigliarono e infine scomparvero. Mentre gli ultimi proiettili venivano inglobati nella massa di mattoni e tubature della creatura, i militari si guardarono, indecisi sul da farsi.
La Cosa-Casa sentiva che stava per arrivare anche lui, il catalizzatore. Avvertiva il suo avvicinarsi e sorrideva con le sue tante bocche. Avanzò, mentre i soldati decisero di passare agli esplosivi. La creatura avvertì le prime detonazioni a qualche centimetro di distanza da sé, ma non se ne curava nel suo lento avanzare. Granate, piccole e insignificanti. A ogni boato, il terreno vibrava, gli uomini tremavano, la Cosa-Casa avanzava, diventando ancora più grande.

La pianura si sostituì ai piccoli rilievi collinari. Hans iniziava ad avvertire la vicinanza. Stava recandosi all’appuntamento con il Fato, ma era tranquillo. Calmo come la pianura che vedeva attorno fuori dal vetro. Sapeva cosa lo aspettava ed era consapevole di tutto. Nonostante gli avvertimenti della nonna, l’uomo con il dono era conscio del suo destino. I campi assumevano di tanto in tanto colori opachi, sporchi, come se fossero vestiti di un drappo di malinconia. Un velo oscuro, il sudario del mondo.

Le granate finirono, come erano finiti i proiettili. La Cosa-Casa dentro di sé vibrava di piacere. I suoi tanti occhi osservavano i soldati, che imperterriti avevano preso in mano un lungo tubo verde. Un missile uscì dalla bocca buia di quell’arma. Il silenzio, durante il volo del missile, era carico di speranza da una parte e curiosità dall’altra. La detonazione che ne seguì fece tremare tutti, persino la Cosa-Casa. Il fumo avvolse la scena e si diradò poco a poco.
La creatura si sbilanciò appena, ma ad alcuni sembrò solo un’impressione. La Cosa-Casa non era rimasta particolarmente colpita dal missile, sembrava più stupita che danneggiata. Avanzò, intonando una canzone maledetta in una lingua sconosciuta.
I soldati più vicini non riuscirono a muoversi e allora – oh, sì, allora sì – iniziarono a sentire la vera paura dilagare dentro di loro. Quelli più distanti iniziarono a indietreggiare, stupiti, confusi e, anche se non l’avrebbero mai ammesso, terrorizzati come bambini. La creatura continuava la sua lenta marcia, avvicinandosi agli uomini immobilizzati dalle sue parole di magia. Quando quei piccoli esseri giunsero a contatto, si udì solo un debole risucchio. La creatura inglobava e inglobava e inglobava, senza sosta. Sempre più grande, a oscurare il cielo e le macerie della villa.
I militari più distanti ripiegarono disperati.

Il treno rallentò e si fermò in stazione, stridendo sulle rotaie. Hans scese zoppicando e si recò nella zona dei taxi. Aveva avuto tutto il tempo del viaggio per riflettere su di sé, sulla Casa e sull’Idolo. Ora non era più tempo per riflettere, era il tempo per scendere in campo al fianco del monaco.
Hans diede l’indirizzo al conducente e si lasciò guidare lungo le vie della città, osservandone la tranquillità e la calma. La quiete prima di arrivare in vista del quartiere della villa. In lontananza si udivano boati ed esplosioni. Il tassista fermò l’auto e fece scendere Hans, che inutilmente cercò di convincerlo a proseguire fino alla zona della villa.
Il taxi scomparve dietro la strada, lasciando Hans al proprio destino. Camminando e imprecando per le fitte di dolore, si diresse verso la villa – o meglio quello che ne restava. Giunse in vista del perimetro creato dalle forze dell’ordine in tempo per assistere alla ritirata dei poveri militari.

Shlomo lo sentì arrivare alle sue spalle. Infine il catalizzatore era giunto sul luogo. Forse esisteva ancora una speranza. Forse.
«Sono arrivato» disse Hans.

giovedì 3 novembre 2011

Capitolo 12 + Gianluca Santini


Rumori impercettibili, comuni a tutte le case di una certa età. È il linguaggio segreto dei vecchi mobili e dei muri in perenne stato di assestamento.
Solo che in questo caso era diverso.
Tra i cigolii del legno e il lievissimo ticchettio di cose minuscole che si muovevano nelle pareti, la Casa aveva emesso miriadi di invisibili spore. Qualcuno lo avrebbe definito un meccanismo di autodifesa, altri una strategia di caccia. Si trattava di entrambe le cose. Peccato solo che la natura della Casa fosse ignota a tutti. O quasi.
Sentiva i piccoli umani - così fragili e approssimativi nelle loro limitazioni biologiche - che zampettavano nei corridoi e nelle stanze. Qualcuno era già morto, fatto a pezzi con disarmante facilità dalle creature-spore emesse dall'edificio. Organismi microscopici in grado di pescare nelle primitive paure del cervello umano e di dar loro forma a livello paraelementale. Ma anche cose più grosse e tangibili.
Non pochi sciocchi che avevano studiato Villa Gatto-Borghi nel corso dei decenni si erano concessi spiegazioni confuse tra scienza e spiritualità. Paroloni senza senso compiuto che avevavo la sola funzione di arginare il terrore senza nome rappresentato dall'edificio. Molti erano morti. Altri avevano lasciato perdere. Non pochi erano impazziti. Alcuni di loro erano tornati. Ora.
Eppure certe persone erano riuscite a sentire qualcosa visitando la Casa: piccoli umani con bloc notes e penna, torce elettriche e registratori audio. Scrittori e indagatori improvvisati, alcuni avevano percepito l'Oltre della Casa. Bipedi dall'intelligenza di poco superiore alla media, ma dotati di una marcia in più rispetto agli altri. Li aveva quasi ammirati quando erano usciti dalla villa, esclamando ad alta voce le ispirazioni per i loro libri e i loro articoli. La Cosa-Casa li aveva lasciati andare: le loro opere sarebbero state spore nella mente dei lettori, attirando nuovi visitatori. Loro erano comunque distanti dalle verità della Casa.
Verità che sarebbero comunque sfuggite ancora una volta. Le capacità umane erano troppo limitate per comprendere la vera natura della Cosa-Casa. Stakari-Botri, come l'avevano ribattezzato i tripolitani, prima che gli italiani invadessero le loro terre, strappando tutto ciò che avevavo di prezioso. La bizzarria della sorte era che quel nome se l'era inventato un padre missionario, poi ucciso “per sbaglio” perché si era schierato in difesa degli arabi. Alla Cosa era piaciuto e ora pensava a se stesso in quei termini, anche se era un nome senza vero Potere.

Ai tempi la Cosa-Casa proliferava presso un minuscolo villaggio arabo dello Sciara Sciat. A dire il vero non era ancora una “casa”, bensì una sorta di obelisco fungiforme temuto e venerato dagli zotici della regione. Aveva promesso protezione dagli invasori latini ai suoi più intimi adoratori, impegno mantenuto però solo per pochi giorni, quando aveva capito che gli italiani avrebbero comunque vinto quella stupida e inutile guerra. Al che Stakari-Botri anelava già la ricca Europa, assaporandone la ricchezza di carni e menti in cui avrebbe potuto sporificare.
Il Fato era dalla sua parte, perché tra gli ufficiali italiani c'era un elemento che costituiva per lui un naturale contatto, il tenente Guidobaldo Verzeni, rampollo di una famiglia in cui più di un membro si dilettava di arti che gli stupidi umani definivano “oscure”. Era stata forse una naturale affinità a guidare il Verzeni fino alla polla in cui il monolite spugnoso attendeva il suo nuovo, inconsapevole servo. Poche spore invisibili avevano permesso al tenentino di entrare in una sorte di trance allucinatoria. Tra i cadaveri ancora freschi degli arabi e dei turchi morti in battaglia pochi metri più in là, molti dei quali orribilmente invasi da muffe scure e ripugnanti, Verzeni aveva trovato il suo Dio. Sette giorni più tardi un mercantile pagato sottobanco dal ricco ufficiale trasportava l'obelisco, sigillato in una cassa, a villa Gatto-Borghi.

La casa, che ora era parte integrante di Stakari-Botri, era un monumento all'idiozia umana, infetta dagli esperimenti bislacchi fatti dagli idioti che giocavano con fuoco senza conoscerne il pericolo. Il perfetto brodo di coltura per la creatura, precipitata su quel pianeta molti secoli fa. Ai tempi era ancora una spora, portata dal vento e dall'autocoscienza limitata. Col tempo si era plasmata, crescendo di massa e di potenza. Gli echi del mondo dei suoi simili, distrutto eoni orsono da un evento cosmico, vivevano nel suo retaggio mnemonico. Ricrearlo lì, su quella palla fangosa abitata da forme di vita primitive, era un progetto più attuabile, man mano che trascorrevano gli anni. La villa, la villa era la sua meta perfetta. Infatti Stakari-Botri aveva proliferato, spargendo spore e plasmando menti, attingendo alle superstizioni religiose comuni tra gli umani. I Verzeni si erano dimostrati dei perfetti padroni di casa, anche coloro che, a differenza di Guidobaldo, non avevano alcun interesse nello studio delle cose occulte.

Un rumore interruppe parte del flusso dei pensieri della Cosa-Casa. Le spore invisibili della creatura sondavano la villa di secondo in secondo, manifestandosi a secondo delle esigenze nelle forme più opportune. Gli intrusi aumentavano di numero. In circostanze normali sarebbe stato solo un bene, un'occasione perfetta per aumentare il brodo di coltura. Del resto la creatura stessa attirava prede, di tanto in tanto, per nutrirsi. Ma tra questi nuovi visitatori percepiva presenze che in qualche modo temeva. C'erano i maledetti impiccioni che studiavano la villa da anni. Coloro che avevano limitato la sua sporificazione con i rituali giusti, col Segno, con la Geometria delle Cose e con la scienza.
Percepì la presenza del monaco, dell'Uomo di Legge monco e quella del moribondo, che potenzialmente era colui che più rappresentava un problema. Erano venuti lì per sfidarlo? Possibile, dopo aver dimostrato loro la sua virtuale invulnaribilità? Lo avevano circoscritto nei limiti della casa già anni prima, e questo per loro era un incredibile successo. Perché tornare per tentare l'impossibile? Una parte della coscienza di Stakari-Botri capì che c'erano di mezzo quelle strane cose chiamate relazioni umane. Rapporti parentali che spingevano quelle scimmie a correre rischi immani per salvare i loro consanguinei. Qualcuno di sbagliato era entrato nella villa e gli altri stupidi bipedi erano accorsi a salvarlo.
Eppure un sussulto tanto raro quanto imprevisto della sua massa primaria, nascosta nel cuore della casa, gli fece capire che aveva paura. Spinti dalla feroce autoconservazione della prole e armati delle conoscenze proibite che il monaco studiava da anni, potevano forse causargli seri danni.
Distruggerlo?
Il pensiero lo turbò. Per eliminarlo del tutto avrebbero dovuto ricorrere ad armi di cui senz'altro non disponevano ancora.
O forse sì?
Quel dubbio minava la solida, imperturbabile determinazione della Cosa-Casa. Una vera e propria novità per la creatura fungiforme, che conosceva la paura solo in qualità di riflesso della mente scimmiesca degli umani.
Era dunque giunto il momento per porre fine a quella storia. Non era più il tempo di giocare con le spore allucinatorie e con le micotossine di media complessità a cui aveva dato vita finora. I suoi nemici più potenti si preparavano a entrare. Avrebbero trovato la morte. Si sarebbero uniti al brodo di coltura. Forse ne avrebbe lasciato vivo qualcuno, amputando le sue mani, di modo che non potesse più attingere alla Geometria delle Cose per tracciare o costruire altri Segni. Lo aveva già fatto con l'Uomo di Legge. Doveva essere un monito. Evidentemente non era bastato.
Tuttavia la Cosa-Casa si sentiva pronta. Distruggendo il monaco e il moribondo avrebbe distrutto anche il vincolo che lo confinava alla villa. Il che voleva dire tornare a sporificare il lungo e in largo.
Il tempo era maturo.
Stakari-Botri iniziò a emettere micotossine e a plasmarle. Presto, molto presto avrebbe ottenuto una vittoria che stava nell'ordine naturale del creato. Il più forte sconfigge sempre il più debole. Di certo lui non avrebbe concesso eccezioni.

venerdì 28 ottobre 2011

Capitolo 1 - Visitatori Occasionali + (Angelo Benuzzi)

“Come sarebbe a dire, non hai mai visto i Goonies?”
Margherita fece spallucce. “Io da ragazzina avevo altro da fare,” disse.Bruno rimase a guardarla, in cerca di una risposta.
Anche adesso Margherita aveva l'aria di una che aveva altro da fare – dalle Reebook immacolate al crop-top di una misura troppo stretto, passando per i pantaloni combat e l'ombelico esposto, la biondina dall'espressione annoiata aveva tutta l'aria di essere capitata lì per caso.
Bruno scosse il capo, e tornò a controllare per la terza volta di avere tutto.
Cellulare.
Macchina fotografica.
Torcia elettrica con lampada allo xenon.
Set di grimaldelli.
Kit di pronto soccorso.
Gessi colorati, confezione da sei.
Notes e matita.
“La bat-cintura è in ordine?” gli chiese Andrea, ridendo.
Da sempre, Andrea usava uno zainetto Decathlon da cinque euro per portare la sua attrezzatura, mentre Bruno preferiva viaggiare leggero, e portava il minimo indispensabile in un marsupio che non mancava mai di destare l'ilarità del suo compagno d'avventure.
Che stasera, tuttavia, aveva altro a cui pensare.
“Pronta alla grande avventura, piccola?”
Margherita sfoggiò un sorriso finto, e si strusciò addosso ad Andrea.
Bruno trattenne un grugnito, e prese le chiavi della macchina, facendole tintinnare.
Era una regola non scritta – non ti porti la ragazza quando vai per edifici abbandonati.
Lo aveva detto anche Ninjalicious – la figa abbassa il livello di attenzione.
Ma non c'era stato modo di dissuadere Andrea – voleva che la sua ragazza condividesse quell'esperienza, così come aveva condiviso le vacanze e gli esami universitari.
Chissà, forse sperava che il mix di adrenalina e oscurità dell'esplorazione urbana le cancellasse quell'espressione eternamente annoiata dalla faccia.
Bruno comunque aveva dei pessimi presentimenti.
“Siete sicuri che non avremo dei guai?” chiese la bionda.
Andrea le diede una pacca sul sedere.
“Villa Gatto-Borghi è abbandonata da anni,” le disse. “Ormai non ci vanno neanche più i writer o i drogati. Non vedo che guai potremmo avere.”

C'era un'auto dei carabinieri ferma fuori Villa Gatto-Borghi.
Gaetano pestò sul freno, frullando il contenuto della Panda.
“Ehi!”
Rosa si piegò in avanti, per raccogliere il blocco e la penna che le erano cascati fra i piedi.
“A ore dieci,” disse lui.
“Eh?”
Rosa si tirò su e guardò attraverso il parabrezza, oltre l'incrocio deserto.
“Sei fortunato che non avevamo nessuno dietro...,” cominciò, ma lui tagliò corto.
“Ore dieci,” ripeté, accennando col capo.
Davanti a loro a sinistra.
“Una macchina dei carabinieri,” disse lei.
Lui annuì, riavviando la Panda e dando di sterzo come un forsennato.
“Cosa diavolo..?!” fece lei, dando una spallata alla portiera.
“Andiamo a fornire appoggio ai colleghi,” disse lui.
Lei lo guardò a bocca aperta.
“I colleghi? Quelli son carabinieri...”
La panda urtò il marciapiede basso e si fermò, storta.
Gaetano aprì la portiera e sganciò la cintura di sicurezza, continuando a fissare la sagoma nera della villa, illuminata dai lampeggiatori della macchina nera.
Poi scese lentamente, e sfoderò la scacciacani d'ordinanza.
“Io vado avanti,” le disse. “Tu coprimi...”
Con un sospiro, Rosa scese a sua volta, gettò un'occhiata all'auto dei carabinieri, e seguì Gaetano che avanzava lungo il vialetto malandato della Villa, muovendosi come un tarantolato.
A metà percorso, lui si fermo, si accoccolò ai piedi di un angelone di gesso annerito dall'aria inquinata e si voltò a guardarla, ferma in mezzo al cancello, le mani sui fianchi e l'aria rassegnata.
Le fece dei gesti che lei non riuscì a capire.
Quando finalmente lo raggiunse, “Non ti hanno insegnato ad avanzare sbalzando?” le chiese, in tono stizzito, per poi riprendere l'avanzata verso la porta d'ingresso del villone.
Lei lo guardò barcollare e ondeggiare fino sulla soglia.
Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte.
Sei settimane nella Polizia Comunale, e già le toccava dividere i turni di pattuglia con Jonny Bravo.
Provò una fitta di nostalgia per il lavoro al call center.

“Ma cos'è 'sta puzza?”
Il vice-brigadiere Santini era stato in parecchi posti schifosi nella sua carriera, ma non ricordava di aver mai sentito un puzzo come quello che allignava nell'ingresso di villa Gatto-Borghi.
“Sarà un gatto morto,” suggerì il carabiniere scelto Oberwalder.
Il sole basso filtrava attraverso le tavole inchiodate alle finestre del pian terreno, fasci di luce in cui fluttuavano milioni di granelli di polvere e che illuminavano in maniera crepuscolare l'ingresso vuoto e malandato.
“Un gatto della malora,” disse Santini, “da quanto tanfa, doveva pesare trenta chili.”
Con la mano guantata, tentò senza convinzione un interruttore della luce.
Uno schiocco ed una cascata di scintille gli fecero ritirare la mano di scatto.
“Brigadiere...!”
“Niente, niente,” fece Santini, allontanandosi dalla parete scrostata.
Un refolo di fumo nero si sollevava dall'interruttore annerito.
“Certo che tocca essere ben stronzi, eh, a lasciare la corrente attaccata in una casa vuota da anni.”
Oberwalder si affacciò a un corridoio.
“Eppure è da qui che hanno telefonato,” disse.
Santini si avvicinò allo scalone liberty che portava al piano superiore.
“Sarà,” disse, incerto.
Al brigadiere si erano drizzati i peli della nuca quando la centrale li aveva mandati a investigare su quelle chiamate mute. I tanti anni di servizio nell’Arma gli avevano fatto sviluppare un sesto, un settimo e anche un ottavo senso per distinguere le rogne a distanza. Oberwalder era ancora troppo giovane per poter capire cose del genere, troppo verde e fiducioso che tutto potesse essere definito nei contorni del codice penale o del regolamento dei Carabinieri.
Telefonate da una villa abbandonata. Una cosa assurda. Le sirene d’allarme dei sensi supplementari di Santini stavano facendo il concerto di Capodanno tutte assieme.
Strisce nere di muffa davano alla carta da parati un aspetto zebrato.
Che situazione del cazzo.
Che modo del cazzo di chiudere la giornata prima di andare a cena.
“Avanti, diamo un'occhiata e vediamo se c'è qualcuno in questo posto,” disse.

In quel momento, attraverso la porta spalancata, entrò rotolando un giovanotto nerboruto con l'uniforme da vigile urbano e i capelli tagliati cortissimi.
Rotolò, si rimise in piedi e spianò una pistoletta ridicola in faccia a Santini.
Oberwalder fece correre la mano alla cintura, ma un gesto di Santini lo fermò.
Dalla porta d'ingresso fece qualche passo incerto una vigilessa coi capelli rossi, che poi si fermò, interdetta.
Nel silenzio assoluto, dalle viscere della casa si levò un cigolio basso ed orribile, che per lunghi secondi parve far vibrare il pavimento.
Poi, il silenzio.
“Gaetano,” disse la rossa, con voce stanca, “ma che cazzo stai facendo?”

Quando il cigolio finalmente tacque, Margherita si rese conto di avere le dita strette attorno al braccio di Andrea, strette tanto forte che le doleva la mano.
“Cosa è stato?” chiese, con un filo di voce.
“Non lo so,” rispose lui. “Forse le tubature dell'acqua.”
“Zitti,” disse Bruno.
Inclinò il capo da una parte. “Credo ci sia qualcuno al piano di sopra.”
Proprio quello di cui avevano bisogno.Cap. 1 Visitatori occasionali
“Come sarebbe a dire, non hai mai visto i Goonies?”
Margherita fece spallucce. “Io da ragazzina avevo altro da fare,” disse.Bruno rimase a guardarla, in cerca di una risposta.
Anche adesso Margherita aveva l'aria di una che aveva altro da fare – dalle Reebook immacolate al crop-top di una misura troppo stretto, passando per i pantaloni combat e l'ombelico esposto, la biondina dall'espressione annoiata aveva tutta l'aria di essere capitata lì per caso.
Bruno scosse il capo, e tornò a controllare per la terza volta di avere tutto.
Cellulare.
Macchina fotografica.
Torcia elettrica con lampada allo xenon.
Set di grimaldelli.
Kit di pronto soccorso.
Gessi colorati, confezione da sei.
Notes e matita.
“La bat-cintura è in ordine?” gli chiese Andrea, ridendo.
Da sempre, Andrea usava uno zainetto Decathlon da cinque euro per portare la sua attrezzatura, mentre Bruno preferiva viaggiare leggero, e portava il minimo indispensabile in un marsupio che non mancava mai di destare l'ilarità del suo compagno d'avventure.
Che stasera, tuttavia, aveva altro a cui pensare.
“Pronta alla grande avventura, piccola?”
Margherita sfoggiò un sorriso finto, e si strusciò addosso ad Andrea.
Bruno trattenne un grugnito, e prese le chiavi della macchina, facendole tintinnare.
Era una regola non scritta – non ti porti la ragazza quando vai per edifici abbandonati.
Lo aveva detto anche Ninjalicious – la figa abbassa il livello di attenzione.
Ma non c'era stato modo di dissuadere Andrea – voleva che la sua ragazza condividesse quell'esperienza, così come aveva condiviso le vacanze e gli esami universitari.
Chissà, forse sperava che il mix di adrenalina e oscurità dell'esplorazione urbana le cancellasse quell'espressione eternamente annoiata dalla faccia.
Bruno comunque aveva dei pessimi presentimenti.
“Siete sicuri che non avremo dei guai?” chiese la bionda.
Andrea le diede una pacca sul sedere.
“Villa Gatto-Borghi è abbandonata da anni,” le disse. “Ormai non ci vanno neanche più i writer o i drogati. Non vedo che guai potremmo avere.”

C'era un'auto dei carabinieri ferma fuori Villa Gatto-Borghi.
Gaetano pestò sul freno, frullando il contenuto della Panda.
“Ehi!”
Rosa si piegò in avanti, per raccogliere il blocco e la penna che le erano cascati fra i piedi.
“A ore dieci,” disse lui.
“Eh?”
Rosa si tirò su e guardò attraverso il parabrezza, oltre l'incrocio deserto.
“Sei fortunato che non avevamo nessuno dietro...,” cominciò, ma lui tagliò corto.
“Ore dieci,” ripeté, accennando col capo.
Davanti a loro a sinistra.
“Una macchina dei carabinieri,” disse lei.
Lui annuì, riavviando la Panda e dando di sterzo come un forsennato.
“Cosa diavolo..?!” fece lei, dando una spallata alla portiera.
“Andiamo a fornire appoggio ai colleghi,” disse lui.
Lei lo guardò a bocca aperta.
“I colleghi? Quelli son carabinieri...”
La panda urtò il marciapiede basso e si fermò, storta.
Gaetano aprì la portiera e sganciò la cintura di sicurezza, continuando a fissare la sagoma nera della villa, illuminata dai lampeggiatori della macchina nera.
Poi scese lentamente, e sfoderò la scacciacani d'ordinanza.
“Io vado avanti,” le disse. “Tu coprimi...”
Con un sospiro, Rosa scese a sua volta, gettò un'occhiata all'auto dei carabinieri, e seguì Gaetano che avanzava lungo il vialetto malandato della Villa, muovendosi come un tarantolato.
A metà percorso, lui si fermo, si accoccolò ai piedi di un angelone di gesso annerito dall'aria inquinata e si voltò a guardarla, ferma in mezzo al cancello, le mani sui fianchi e l'aria rassegnata.
Le fece dei gesti che lei non riuscì a capire.
Quando finalmente lo raggiunse, “Non ti hanno insegnato ad avanzare sbalzando?” le chiese, in tono stizzito, per poi riprendere l'avanzata verso la porta d'ingresso del villone.
Lei lo guardò barcollare e ondeggiare fino sulla soglia.
Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte.
Sei settimane nella Polizia Comunale, e già le toccava dividere i turni di pattuglia con Jonny Bravo.
Provò una fitta di nostalgia per il lavoro al call center.

“Ma cos'è 'sta puzza?”
Il vice-brigadiere Santini era stato in parecchi posti schifosi nella sua carriera, ma non ricordava di aver mai sentito un puzzo come quello che allignava nell'ingresso di villa Gatto-Borghi.
“Sarà un gatto morto,” suggerì il carabiniere scelto Oberwalder.
Il sole basso filtrava attraverso le tavole inchiodate alle finestre del pian terreno, fasci di luce in cui fluttuavano milioni di granelli di polvere e che illuminavano in maniera crepuscolare l'ingresso vuoto e malandato.
“Un gatto della malora,” disse Santini, “da quanto tanfa, doveva pesare trenta chili.”
Con la mano guantata, tentò senza convinzione un interruttore della luce.
Uno schiocco ed una cascata di scintille gli fecero ritirare la mano di scatto.
“Brigadiere...!”
“Niente, niente,” fece Santini, allontanandosi dalla parete scrostata.
Un refolo di fumo nero si sollevava dall'interruttore annerito.
“Certo che tocca essere ben stronzi, eh, a lasciare la corrente attaccata in una casa vuota da anni.”
Oberwalder si affacciò a un corridoio.
“Eppure è da qui che hanno telefonato,” disse.
Santini si avvicinò allo scalone liberty che portava al piano superiore.
“Sarà,” disse, incerto.
Al brigadiere si erano drizzati i peli della nuca quando la centrale li aveva mandati a investigare su quelle chiamate mute. I tanti anni di servizio nell’Arma gli avevano fatto sviluppare un sesto, un settimo e anche un ottavo senso per distinguere le rogne a distanza. Oberwalder era ancora troppo giovane per poter capire cose del genere, troppo verde e fiducioso che tutto potesse essere definito nei contorni del codice penale o del regolamento dei Carabinieri.
Telefonate da una villa abbandonata. Una cosa assurda. Le sirene d’allarme dei sensi supplementari di Santini stavano facendo il concerto di Capodanno tutte assieme.
Strisce nere di muffa davano alla carta da parati un aspetto zebrato.
Che situazione del cazzo.
Che modo del cazzo di chiudere la giornata prima di andare a cena.
“Avanti, diamo un'occhiata e vediamo se c'è qualcuno in questo posto,” disse.

In quel momento, attraverso la porta spalancata, entrò rotolando un giovanotto nerboruto con l'uniforme da vigile urbano e i capelli tagliati cortissimi.
Rotolò, si rimise in piedi e spianò una pistoletta ridicola in faccia a Santini.
Oberwalder fece correre la mano alla cintura, ma un gesto di Santini lo fermò.
Dalla porta d'ingresso fece qualche passo incerto una vigilessa coi capelli rossi, che poi si fermò, interdetta.
Nel silenzio assoluto, dalle viscere della casa si levò un cigolio basso ed orribile, che per lunghi secondi parve far vibrare il pavimento.
Poi, il silenzio.
“Gaetano,” disse la rossa, con voce stanca, “ma che cazzo stai facendo?”

Quando il cigolio finalmente tacque, Margherita si rese conto di avere le dita strette attorno al braccio di Andrea, strette tanto forte che le doleva la mano.
“Cosa è stato?” chiese, con un filo di voce.
“Non lo so,” rispose lui. “Forse le tubature dell'acqua.”
“Zitti,” disse Bruno.
Inclinò il capo da una parte. “Credo ci sia qualcuno al piano di sopra.”
Proprio quello di cui avevano bisogno.

mercoledì 26 ottobre 2011

Capitolo 8 + Barney

Santonastaso fissava la casa con odio, certo di essere ricambiato. Aveva tirato fuori dal furgone il Segno e si preparava a entrare nel cortile, incurante delle proteste del suo vice. Ci sono cose che un uomo deve fare, non importa a che costo, questo era sempre stato il suo credo. Le mani avevano cominciato a dolergli appena arrivato, quando la casa era solo una macchia in fondo alla strada. Dolore fantasma, lo chiamavano i medici. Il ricordo delle sue mani, sostituite da protesi miolettriche da molti anni, non cessava di tormentarlo. Un passo dopo l'altro si avvicinò all'ingresso mentre fitte di dolore sempre più forti minacciavano di annebbiargli la vista.

Una volta passata la soglia cambiò tutto. Villa Gatto-Borghi stava cambiando, trascinando con sé il terreno attorno.L'intera struttura sembrava ondeggiare, pervasa di un'energia imperiosa.
Sta crescendo.
Dalla strada lo stavano chiamando, voci lontane e irriconoscibili. A lui non importava, fissava la villa, la presa sul Segno mantenuta solo dalla contrazione delle sue dita artificiali.
Vieni anche tu. Vieni a giocare.
Voci infantili, sottili come aghi, gli graffiavano i timpani. Da dentro la casa arrivavano altri suoni, mormorii fumosi che non riusciva a capire. Sospesi tra la vita e la morte. Fece altri due passi verso la villa, gli girava la testa.

Dentro il furgone le telecamere mostravano tutt'altro. Un uomo malfermo sulle gambe che fissava con aria ebete una villa in pessime condizioni. In compenso i monitor dei sensori sembravano impazziti. Leonardi, il vice di Santonastaso, non aveva mai visto niente del genere. Piena fioritura, pensò, siamo a meno di quattro ore dal disastro. Schiacciò con decisione il tasto di attivazione del sistema di emergenza, non c'era altro modo per rimediare all'influenza di quella cosa.

L'impulso elettrico colpì Santonastaso alla base del cranio, una fitta di dolore assoluto. Capì immediatamente di doversi togliere d'impaccio prima di essere risucchiato dalla villa. Afferrò il Segno con entrambe le mani artificiali e lo piantò con forza nel cortile. Girò le spalle alla casa e si allontanò in fretta, sentiva di nuovo le voci.
Toglilo! Togli il cartello! Sembrava la voce di una bambinaia. Sto parlando con te giovanotto, togli subito quel cartello dal giardino!
No, non l'avrebbe fatto. L'Occhio guardava la casa ora.

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L'energia del Segno contro i neri miasmi della Casa: l'eterna battaglia tra bene e male si riproponeva per l'ennesima volta dinnanzi a villa Gatto-Borghi. 
All'esterno, solo coloro che avevano toccato il Segno potevano vedere quello che stava succedendo, ma l'irraggiarsi dei miceli neri sotto la superficie del terreno bruciato a partire dai muri perimetrali della villa era invisibile anche ai loro occhi.
Santonastaso avverti' pero' un'onda di malefico, famelico odio che seguiva i suoi passi affannati, un'onda lenta ma implacabile che lo incalzava al pari della voce stridula, e che -come la voce- puntava su di lui e sul Segno.
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Tornato all'esterno Santonastaso respirava a pieni polmoni, il fantasma del dolore che indugiava ancora sui suoi nervi. Non era il momento di fermarsi. Vide arrivare a sirene spiegate una macchina dei Carabinieri, seguita a pochi metri da una vettura dei Vigili Urbani. Evidentemente da dentro qualcuno aveva chiamato rinforzi, il suo gruppo era arrivato appena in tempo. Leonardi era sceso dal furgone, il resto della squadra stava organizzandosi per disporre gli sbarramenti da mettere sulle strade attorno.

Dalla Gazzella era sceso un tenentino dall'aria esagitata, seguito a breve da due appuntati armati di mitraglietta, dall'auto dei Vigili Urbani erano in arrivo altri tre uomini, uno con le mostrine da comandante. Il mal di testa di Santonastaso risalì una tacca sulla scala del dolore, questa era la parte più idiota del suo lavoro. Attese a piè fermo i nuovi venuti, preparando la sua tessera ufficiale.
«Fatevi da parte! C'è un'emergenza in corso.» L'ufficialetto era talmente di prima nomina da essere tirato a lucido anche dopo il tramonto. Si inchiodò alla vista del tesserino. AISI. Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna, un bel minestrone di lettere per dire servizi segreti.
«Basta così tenente. Qui comando io. È chiaro anche per lei?» La domanda era per l'ufficiale dei Vigili Urbani, un panzone che pareva un poster pro alcolismo.
«Dentro la villa è in corso un'attività che riguarda la sicurezza nazionale. Nessuno di voi è titolato a interferire. Già che ci siete aiutateci a definire un perimetro di sicurezza, voglio spazio per almeno un isolato in ogni direzione.» Santonastaso era stufo di quel copione, da troppi anni lo ripeteva.
«I vostri uomini e qualsiasi civile sia all'interno di villa Gatto-Borghi è da considerare come scomparso. Fatemi una lista, la devo comunicare a Forte Braschi. Se avete contatti via telefono con loro passateli a me. Sono stato abbastanza chiaro?»
Lo era stato. Non abbastanza da non lasciare i suoi interlocutori senza domande sulla casa. Fissavano tutti il Segno. Dentro i loro cervelli, nascosto nell'ippotalamo, ne conservavano memoria.
E ne avevano paura.

Santonastaso riuscì a fumarsi una sigaretta in pace, senz'altro da fare che aspettare. I mezzi dell'Esercito con i gruppi elettrogeni e le lampade UV erano in arrivo, Leonardi stava parlando al telefono con il sindaco e i buzzurri locali davano una mano a chiudere il perimetro. Cercò di non pensare alle spore, di relegare in un angolo buio del cervello i suoi ricordi e le voci che aveva sentito poco prima. Due carabinieri, due vigili urbani, almeno due civili. Altrettante croci da aggiungere alla lista se...

Come sempre sentì la sua presenza prima di vederlo. Era comparso alle sue spalle senza rumore, richiamato dal Segno e da legami antichi. Santonastaso si girò con calma, assumendo un'espressione di circostanza nel tentativo di non lasciar trasparire il timore che provava.
Shlomo lo fissava. Era ancora più ingobbito di come lo ricordava, avvolto in una specie di saio lurido che molto tempo prima era stato nero. Rivolgeva verso di lui le orbite vuote, lo spettro di un sorriso sul volto grinzoso. Le braccia magre sembravano faticare a reggere un grosso involto, fatto della stessa tela lercia del saio.
«Shalom Marcello. È passato molto tempo dall'ultima volta.» La voce era poco più di un sussurro.
«Bentrovato Shlomo. Questa volta siamo arrivati molto tardi. Forse troppo per chi è dentro alla casa.»
Il vecchio ruotò lentamente la testa, inquadrando nel suo sguardo vuoto villa Gatto-Borghi.
«Gehenna. La vita del mondo rovesciato trova sempre un modo per arrivare a noi.»
Lentamente si avviò verso il cancello, zoppicando e trascinandosi in maniera scomposta. Pareva potesse cascare a pezzi da un momento all'altro. Santonastaso lo fissava.

Shlomo arrivò fino all'ingresso della villa. Sentiva le voci, coglieva il mormorio del fungo dalle fondamenta al tetto. Sì, c'era ancora una possibilità.

lunedì 24 ottobre 2011

Capitolo 14 + NiCK

Un'altra rampa di scale.
Era la terza o forse la quarta.
Da fuori, sullo sfondo del cielo ingombro di nuvole grigie, la casa non gli era parsa poi così alta.
Ma non aveva avuto più di qualche secondo per guardarla. Il capitano aveva ordinato subito di «penetrare nel fabbricato» alla ricerca di «eventuali sopravvissuti».
Erano entrati, una cinquantina di individui del Reparto Mobile in divisa blu, elmetto, parastinchi, giubbotto antiproiettile e beretta 92.
La casa era in condizioni pietose, corridoi ingombri di rottami indefiniti, stanza buie che sapevano di marcio, soffitti alti e inscuriti dall'umidità. E muffe, ovunque.
Si separarono in sei gruppi di 7-8 agenti ciascuno. Un primo gruppo scomparve in un corridoio laterale, un altro puntò al retro della villa. Loro e altri gruppi vennero spediti ai piani superiori. Il suo gruppo, comandato dal sovrintendente Longoni, aveva il compito di salire fino all'ultimo piano.
Giunse al pianerottolo. Fradicio di sudore come i suoi compagni e leggermente perplesso.
Longoni battè un piede sul pavimento rovinato e macchiato di muffa. – Cazzo, ma questo non è l'ultimo piano. – Si voltò e rovesciò la testa all'indietro per quanto la bardatura sulla nuca gli permetteva, – C'è ancora un piano, direi. Almeno un piano. – La poca luce arrivava al pianerottolo da alcune finestre con gli scuri sfondati. Senza rendersene conto i militari si erano raccolti in gruppo, le pistole sollevate o puntate verso il buio. Un buio curioso, che aveva qualcosa di solido.
– Potremmo cominciare a dare un'occhiata qui. – Propose uno dei militari, uno appena arrivato da Livorno di nome Bontoli o Tontoli. – Finito questo piano possiamo passare a quello sopra.
– Certo. Ma... – Longoni esitò per un attimo, poi decise di corsa, come se qualcuno gli puntasse una pistola alla nuca, – Meglio dividerci. Due salgono su, gli altri con me, sul piano.
Luciano fu tra i prescelti per il piano superiore. Lui e Bontoli.
– Attenzione, ragazzi. La scala è molto erta. Non fate le corse e non fate gli eroi. Qualsiasi problema... – ???Indicò il ricetrasmettitore alla cintura, – chiamate. Chiaro?
– Tutto chiaro. – Approvò lui, – Andiamo.

,,,

– Come fai di nome, tu? – Chiese al livornese, mentre salivano – qui è meglio chiamarsi per nome.
– Lido. E tu?
– Luciano. – Ridacchiò, – Lido è proprio un nome buffo.
L'altro si strinse nelle spalle, – Basta farci l'abitudine.
Non avrebbe saputo dire perché, ma non fu troppo sorpreso quando, arrivati al pianerottolo, videro sopra di loro un'altra rampa di scale. Lido invece ne fu impressionato, – Cristo santo, ma... – scese tre o quattro gradini, – ma si vede anche da qui! Come ha fatto il capo...
– Torna su. Non se ne sarà accorto.
Ritornò sul pianerottolo scuotendo il capo, – No, che cazzo. Non c'era un altro piano. Non c'era.
– Calmo. Li guarderemo tutti e due. – «E tutti gli altri infiniti piani dopo questo», gli venne spontaneo di pensare, curiosamente quasi divertito.
Penetrarono nel corridoio immerso nell'oscurità. C'era qualcosa per terra, ma non perdettero tempo a cercare di capire di cosa si trattasse. C'era un forte odore, nell'aria, qualcosa che ricordava il fondo bruciato e bagnato di una pentola di polenta. Un odore umido, freddo.
Luciano entrò nella prima stanza, – Libero! – urlò.
Lido entro nella stanza di fronte, – Libero!
Tre o quattro volte ripeté quella formula, sempre meno convinto. A che diavolo serviva? E se anche ci fosse stato qualcuno nelle stanze? A chi l'avrebbe detto, lui? A Lido?
Si fermò per un attimo, appoggiato alla cornice di una porta.
Frammenti di luce baluginavano oltre le finestre. Una luminosità grigia, inerte.
Dal fondo del corridoio, buio come una vecchia cantina, veniva un rumore sordo, una vibrazione bassa e quasi inafferrabile. Cercò di guardare meglio. Ebbe la sensazione che i profili dei muri oscillassero, si muovessero, respirassero. Sollevò la visiera e si strofinò gli occhi. Immobilità fredda e grigia, ma instabile, incerta. Quasi che la vecchia casa avesse trattenuto il fiato. Come per giocare.
Che idea idiota.
Scosse la testa e si voltò.
Alle sue spalle, a pochi metri da lui, un muro.
Un brivido lento, come il ricordo di un vecchio incubo. La sensazione di non riuscire a muoversi, di sprofondare senza fatica e senza rumore.
Si irrigidì e fece quattro passi. Il muro era solido, immobile, come se si trovasse lì da un secolo o quasi.
– Lido! Liiido! Liiiiidoooo! - Urlò.
La voce gli rimbombava in testa, come quando aveva il raffreddore.
Si voltò ancora.
La porta alla quale si era appoggiato era scomparsa, divorata da un muro.
Di riflesso estrasse la beretta e sparò tre colpi. Si aprirono fori oscuri e profondi, come ferite a un corpo vivente.
– Che cazzo sei? – urlò, – Che... cazzo... sei?
Sottolineò ogni parola con la detonazione della sua beretta.
L'odore era diventato più violento, quasi intollerabile.
I muri vibravano, si muovevano lentamente, si avvicinavano.
– Fermi, bastardi. – sparava e gridava, – vi ho visto... non crediate che...
Il fondo del corridoio era lontano da lui, molto lontano. Sollevò gli anfibi con inattesa lentezza e cercò di mettersi a correre.
Scivolava, raschiava, si aggrappava inutilmente a un pavimento morbido, cedevole, vischioso. Una slow motion, con lui come protagonista. Aveva una paura fottuta e aveva voglia di ridere, di ridere a crepapelle. Quella casa maledetta lo stava ingoiando, digerendo e a lui veniva da ridere. Cessò di sforzarsi. Si sedette per terra. Sorrideva, la mente perduta in remoti ricordi che non sapeva di aver dimenticato..
Le porte scomparivano una dopo l'altra e la luce poco per volta svaniva.
Il suo corpo si scioglieva lentamente, come cera sulla stufa.
L'odore adesso non era più intollerabile.
Era diventato parte di lui.
ERA lui.
L'odore della fioritura.
L'odore della rinascita.
Le quattro pareti si chiusero lentamente, delicatamente su di lui.
Amandolo fino a consumarlo.

Shlomo si era stretto nelle spalle.
Sarebbe stato tutto inutile, lo sapeva.
Conosceva ben poco le liturgie e la catena di comando delle tante polizie italiane, ma sapeva che a un ordine superiore c'era poco da opporre e nulla da eccepire.
Gli stupidi sono uguali, ovunque e in ogni tempo.
Santonastaso aveva resistito più a lungo.
Era rimasto attaccato al telefono per una buona mezz'ora ma tutto quello che era riuscìto a ottenere fu una lunga e inutile discussione con un sottopiffero del ministro. «Ma io le dico che... ma no, non dico certo che non me ne importa nulla... ma se me lo passa potrei spiegargli che... non c'entra nulla... non si tratta di terroristi, come glielo devo dire?... Posso fare ricorso? Ma mi prende in giro?... mi può passare il ministro? No? Eccheccazzo, ma io sono qui per conto dell'AISA, lo sa che cos'è? Ma almeno il ministro lo sa che cos'è?
Chiuse il telefono e se lo cacciò in tasca.
– Niente da fare. Sono in arrivo. Un reparto mobile. Ordine diretto del ministro degli Interni
Shlomo non gli rispose subito. Respirò lentamente e indicò la villa. – Deve nutrirsi, adesso. Deve crescere. Poi toccherà a noi.
– Sono uno dei reparti di Genova, credo. Un reparto scelto. Ma sì, ma che cosa te lo dico a fare, tanto non sai di che cosa parlo.
Ebbe l'impressione che Shlomo, nascosto dietro l'ala del cappuccio, sorridesse, – Hai ragione. Di Genova e di reparti mobili della polizia non so nulla. Completamente nulla.
,,,
La casa era felice, dentro di lei si agitavano coscienze, dentro di lei morivano i ricordi.
I semi crescevano al suo interno, questo solo importava e le piccole coscienze al suo esterno non potevano comprendere. Per quanto la avessero contrastata, per quanto avessero tentato il ciclo si sarebbe compiuto, ancora una volta.
La Cosa\casa gioii cullando le fioriture, le tubature intonarono una ninna nanna, le ragnatele vibrarono al suono.
Tutto sarebbe servito, tutto sarebbe stato utilizzato. Perfino Luciano. O quel che ne rimaneva.

mercoledì 19 ottobre 2011

Capitolo 2 + (MCiti)



Per l’ennesima volta Stefano maledisse sé stesso per non aver provveduto a staccare il telefono, e adesso per punizione il trillo rabbioso dell’apparecchio lo scosse dal sonno. Imprecando l’uomo riuscì come per magia ad inciampare in tutte e tre le lattine di birra disseminate sul pavimento nel tragitto dal divano al telefono prima di arrivare ad afferrare la cornetta.
C’era una sola persona che riusciva sempre ad indovinare i momenti meno indicati per chiamarlo, e questo da che aveva memoria.
-Dimmi Eva, che c’è? Cosa è successo stavolta?.
Sentì la sua ex moglie sospirare pesantemente prima di cominciare a parlare.
-Bruno è uscito di nuovo con Andrea e sai che non mi piace che nostro figlio lo frequenti.
-E io che ci posso fare? Bruno è maggiorenne, e poi lo ha detto anche il giudice: io ho l’obbligo di mantenerlo, non di interferire nella sua vita.
Un attimo di silenzio e poi Eva riprese, con il suo pesante accento ungherese.
Nei primi mesi quell’accento gli era sembrato fantastico e sexy da morire, poi man mano che il tempo passava e le cose tra loro peggioravano lo aveva trovato sempre più disturbante.
-Stefano, li ho sentiti parlare. Andavano a Villa Gatto-Borghi: per questo ti ho chiamato.
Qualcosa si fermò dentro di Stefano . Sentì il rumore come di qualcuno che se la faceva addosso, e non era sicuro di non essere lui. Dopo tutti quegli anni succedeva di nuovo.
-Mi vesto subito. Lo vado a prendere.
Solo allora Eva sembrò rendersi conto delle condizioni del suo ex compagno.
-Stefano, ma ce la fai a guidare? Non avrai mica bevuto ancora?
- No no, sono mesi che non tocco alcool-rispose l’uomo guardando le lattine per terra, e poi con un impeto di dolcezza che stupì lui per primo- Sta tranquilla, te lo riporto indietro. Stavolta andrà tutto bene.
Abbassata la cornetta Stefano si massaggiò pesantemente le tempie. Non era il momento migliore per un dopo sbornia. Lo specchio gli restituì l’immagine dei suoi radi capelli sale e pepe, delle profonde occhiaie e del suo fisico sfatto. La stessa immagine che aveva imparato ad odiare giorno dopo giorno.
Con gesto nervoso afferrò le chiavi della macchina.
Villa Gatto- Borghi. Non di nuovo. Non dopo tutti quegli anni. Non proprio con suo figlio.
Sono fottuto, pensò l’uomo prima di uscire in strada.


Eva rimase seduta con il cellulare in mano, guardò le foto sul mobile: foto di Bruno da bambino, foto di Bruno con lei; più lontana e seminascosta dalle altre una rarissima immagine di Stefano e di lei giovani e felici.
Sospirando la donna aprì il cassetto di cui solo lei, aveva la chiave ed in silenzio cominciò a cacciar fuori tutte le foto di Villa Gatto-Borghi.




Il Vice Brigadiere Santini non era conosciuto proprio per la sua pazienza, eppure davanti a quel “Rambo dei poveri” che gli si era parato davanti dovette appellarsi a tutti gli anni di esperienza per non urlare, per non ridergli in faccia.
-Fermi tutti. Che ci fate qui? deferite le vostre generalità!
Oh,Signore, pensò Santini, l’uomo era più coglione del previsto.
-Tanto per cominciare Callaghan, si dice “fornire le generalità”, non” deferire”, punto secondo: qui le domande le faccio io; infine se continui ad agitarmi addosso quella pistola io te la strappo di mano, te la ficco nel culo e poi premo il grilletto! E forse, non necessariamente in quest’ordine. Quindi vediamo di non farci male.
-Gaetano, sono dei Carabinieri. Posa l’arma.
Solo in quel momento Santini notò la donna dai capelli rossi, un'altra “municipale” a quanto pare. Per la prima volta il il Vice Brigadiere, fu grato della comparsa di un agente donna. La nuova arrivata sembrava molto più sveglia del compagno, non che ci volesse molto comunque.
Il Rambo accortosi in ritardo della situazione, nel frattempo, aveva posato la ridicola arma e si era profuso in un ancora più ridicolo saluto militare.
-Signorsì, Signore. Eravamo sbalzati in vostro appoggio. Signore.
No, per favore, maledisse Santini, è uno scherzo. Maledisse tutti i santi di cui era a conoscenza. Due anni mancavano alla sua pensione, due anni. E poi non avrebbe avuto più a che fare con tutta quella merda.
Si limitò a sussurrare nell’orecchio del vigile donna:-Sbalzati, eh?
-Lasci perdere.-Rispose semplicemente la rossa.
-Bene, Oberwalder, vediamo di combinare qualcosa prima di andare a casa!
Ma nel punto dove prima c’era il Carabiniere scelto Oberwalder, non c’era più niente. Solo, il berretto.
Avvolto dalle ragnatele.


Stefano non ricordava quanto avesse guidato. Sapeva solo che dopo quasi vent’anni, si stava di nuovo dirigendo verso Villa Gatto-Borghi
Mancava poco ormai. E a peggiorare le cose il mal di testa cominciava a diminuire, e questo lo spaventava . Solo l’alcool riusciva a tenere lontani i ricordi.
Assieme ai suoi fantasmi.
Li avvertiva sempre quando arrivavano: un senso di fredda pesantezza che gli colpivano il diaframma.
Pregò non si trattasse di Armida.
E ovviamente era lei, seduta sul sedile del guidatore. Bella come l’aveva conosciuta venti anni prima.
-Alla fine ci stai tornando, vero?.
-Armida per favore, non è il momento. Avrai tempo un altro giorno per tormentarmi.
Nonostante la paura Stefano aveva voglia di accarezzarle i lunghi capelli neri, proprio come faceva sempre prima di fare l’amore con lei. Proprio come aveva fatto per l’ultima volta quella maledetta sera prima di entrare dentro quella fottuta villa.
-E’ per tuo figlio, vero? Ricordi che avevo la stessa età Bruno quando mi hai portato là dentro?
Era solo un gioco, dicevi.
Stefano avrebbe voluto piangere o vomitare, o entrambe le cose. Ma non poteva sottrarsi dal guardarla di nuovo. Non che non sapesse quello che sarebbe successo.
Adesso Armida lo guardava con espressione accusatrice,la bellezza totalmente scomparsa: la pelle scarnificata, il globo oculare destro vuoto. Vuoto e freddo.
La Cosa-Armida indifferente al disgusto dell’uomo,prese a mangiarsi le pellicine vicine alle unghie.
-Armida, mi dispiace. “Era” solo un gioco. Non potevo sapere quello che c’era dentro la Villa- Farfugliò l’uomo.
-Non potevi sapere? Eravamo in otto quando ci hai voluti portare in quella Villa.”Per cercare i fantasmi”, dicevi. “Solo un gioco” dicevi. E guarda: ne siete usciti in due. Non hai cercato di salvare me, hai salvato quella tua troietta ungherese del cazzo!
Stefano arrivato al cancello della Villa, fermò l’auto di colpo. Piangendo si precipitò fuori alla macchina.
-Mi dispiace! Mi dispiace!Io ci ho provato a salvarti! Non potevo sapere. Io non potevo sapere!
La cosa –Armida si grattò languidamente dentro il globo oculare,ne tirò fuori un verme e in maniera noncurante lo inghiottì.
Dopo si decise a scendere anche lei dalla macchina.
- Noi ci rivedremo ancora. Ti aspetto là dentro.
L’uomo provò ad alzare gli occhi, a sfidare una volta tanto, il suo incubo. Ma il suo sguardo incontrò il nulla. Armida com’era arrivata se n’era andata.
Solo il vento lo accolse , lo circondò, gli diede il benvenuto.
La sagoma di Villa Gatto- Borghi lo attendeva, silente come se fosse stata certa del suo ritorno un giorno o l’altro. Grande al punto da spezzare il cielo con la sua mole.
La carcassa di un cane, morto da chissà quanto, giaceva a terra.
Delle auto erano parcheggiate nel parco, una sembrava un’ auto dei carabinieri.
Stefano, in silenzio si avviò lentamente verso l’entrata.
La carcassa del cane sembrò scrutarlo con odio.
...
Armida guardò l'uomo che un tempo aveva chiamato Stefano, mentre svaniva nel silenzio e nella lenta luce grigia. 
Lei non faceva più parte di quel tempo, si era fermata per sempre a un momento di tanti anni prima, a una sera impossibile da dimenticare. A una speranza assurda, che nemmeno lei, allora, aveva preso davvero sul serio. Poteva ancora minacciarlo, disgustarlo. Poteva ritornare mille volte su quel momento, ma nulla di più. Si accarezzò i lunghi capelli corvini, dei quali un tempo era stata fiera. Inutilmente, era come toccare la nebbia. Il tempo la stava portando via, poco per volta.

venerdì 7 ottobre 2011

Capitolo 2 - Cielo Spezzato

Lo squillo del telefono riuscì a stento a svegliarlo, perso com’era in un mare plumbeo di sonno rinforzato dalla birra. Stefano si trascinò barcollando dal divano fino al telefono, gli occhi semichiusi e una gran voglia di mandare al diavolo l’importuno di turno. Prima di afferrare la cornetta, un momento di lucidità, poteva essere solo Eva.
-Dimmi Eva, che c’è? Cosa è successo stavolta?
Un sospiro, più pesante di qualsiasi parola. Un rumore che aveva imparato ad odiare.
-Bruno è uscito di nuovo con Andrea e sai che non mi piace che nostro figlio lo frequenti.
-E io che ci posso fare? Bruno è maggiorenne, e poi lo ha detto anche il giudice: io ho l’obbligo di mantenerlo, non di interferire nella sua vita.
Una pausa, attimo prezioso per Eva per buttare fuori un altro sospiro.
-Stefano, li ho sentiti parlare. Andavano a Villa Gatto-Borghi: per questo ti ho chiamato.
Per un momento Stefano non riuscì a capire. Il nome di quella villa andava a sbattere contro una porta chiusa nella sua mente, un posto che da decenni cercava di cancellare dalla sua memoria. Dopo tutto quel tempo. Di nuovo.
-Mi vesto subito. Lo vado a prendere.
Eva aveva sentito il cambiamento nella sua voce, un tono che la riportava al passato.
-Stefano, ma ce la fai a guidare? Non avrai mica bevuto ancora?
- No no, sono mesi che non tocco alcool.
Le bugie gli erano sempre riuscite bene quando si trattava di rassicurarla, eredità di un matrimonio crollato troppo presto per i suoi gusti.
- Sta tranquilla, te lo riporto indietro. Stavolta andrà tutto bene.
Stefano si massaggiò le tempie, gesto inconscio che faceva sempre per scacciare il mal di testa da dopo sbornia. Lo specchio gli restituì la sua immagine invecchiata, daperdente. L’immagine di una vita che aveva imparato ad odiare giorno dopo giorno. Prese le chiavi della macchina, deciso ad agire. Villa Gatto- Borghi. Di nuovo. Con suo figlio.
Sono fottuto, pensò prima di uscire.

Eva fissava con aria assente le foto sul mobile: foto di Bruno da bambino, foto di Bruno con lei; in un angolo distante una rarissima immagine di Stefano e di lei, molti anni prima. Un altro sospiro, pausa prima di un tuffo nelle acque più profonde della sua memoria, prima di aprire il cassetto di cui solo lei aveva la chiave. Quello che conteneva tutte le foto di Villa Gatto-Borghi.

Il Vicebrigadiere Santini era un uomo rude e quando quel cretino in divisa azzura gli si era parato davanti dovette appellarsi a tutta la sua calma per non urlare.
-Fermi tutti. Che ci fate qui? deferite le vostre generalità!
Oh,Signore, pensò Santini, l’uomo era anche peggio di quello che sembrava.
-Tanto per cominciare Callaghan, si dice “fornire le generalità”, non” deferire”, punto secondo: qui le domande le faccio io; infine se continui ad agitarmi addosso quella pistola io te la strappo di mano, te la ficco nel culo e poi premo il grilletto! E forse, non necessariamente in quest’ordine. Quindi vediamo di non farci male.
-Gaetano, sono dei Carabinieri. Posa l’arma.
In quel momento Santini notò l’altra agente, una donna dai capelli rossi. Sembrava decisamente più intelligente del compare, magari avrebbe potuto rendersi utile. L’idiota aveva rinfoderato la pistola per scattare in una pessima imitazione di saluto militare.
-Signorsì, Signore. Eravamo sbalzati in vostro appoggio. Signore.
No, per favore, pensò Santini, è uno scherzo. Bestemmiò tra sé, mai possibile che a solo due anni dalla pensione dovesse ancora sopportare dei pezzi di merda del genere. Si girò verso la rossa, sussurrando.
-Sbalzati, eh?
-Lasci perdere.
La donna sembrava nauseata.
-Bene, Oberwalder, vediamo di combinare qualcosa prima di andare a casa!
Nessuna risposta. Il Carabiniere scelto Oberwalder era svanito nel nulla lasciando solo il berretto. Avvolto dalle ragnatele.

Stefano sembrava in trance. Dopo quasi vent’anni, stava tornando a Villa Gatto-Borghi. Il calare del mal di testa gli stava lasciando addosso uno strato di paura. Solo con il bere riusciva a tenere lontano i suoi demoni. Già sentiva la tensione gelida nel diaframma, l’inevitabile preludio delle sue visioni. Se avesse potuto avrebbe pregato un dio, uno qualsiasi, per non rivedere Armida un’altra volta. Poco dopo se la trovò accanto, sul sedile del passeggero.
-Alla fine ci stai tornando, vero?.
-Armida per favore, non è il momento. Avrai tempo un altro giorno per tormentarmi.
Era bellissima, i lunghi capelli neri che sembravano aspettare una sua carezza, proprio come faceva sempre in passato prima di fare l’amore. Come vent’anni prima, poco prima di entrare in quella maledetta villa.
-E’ per tuo figlio, vero? Ricordi che avevo la stessa età Bruno quando mi hai portato là dentro? Era solo un gioco, dicevi.
Stefano non riusciva a smettere di guardala, affascinato suo malgrado dall’apparizione. Anche se sapeva cosa avrebbe visto di lì a poco. La ragazza lo fissava con odio, la sua bellezza cancellata. La pelle ricadeva sul viso svuotato dalla carne, l’orbita destra vuota e gelida come l’inferno. Indifferente alla sua reazione disgustata lo spettro si stava mangiando le pellicine vicine alle unghie.
-Armida, mi dispiace. “Era” solo un gioco. Non potevo sapere quello che c’era dentro la Villa..
-Non potevi sapere? Eravamo in otto quando ci hai voluti portare in quella Villa.”Per cercare i fantasmi”, dicevi. “Solo un gioco” dicevi. E guarda: ne siete usciti in due. Non hai cercato di salvare me, hai salvato quella tua troietta ungherese del cazzo!
Stefano era arrivato davanti al cancello della Villa, si precipitò fuori alla macchina piangendo.
-Mi dispiace! Mi dispiace!Io ci ho provato a salvarti! Non potevo sapere. Io non potevo sapere!
Armida scavò con aria languida nell’orbita vuota, ne estrasse un verme e lo inghiottì. Scese anche lei dall’auto.
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- Noi ci rivedremo ancora. Ti aspetto là dentro.
Svanita. Lasciandolo solo con un presente che prometteva male quanto il suo passato. Era rimasta solo una folata di vento ad accoglierlo. Di fronte a lui la sagoma enorme e silenziosa di Villa Gatto- Borghi.
C’era la carogna di un cane nel parco. Poco più avanti due auto, una con i colori familiari dell’Arma.
Iin silenzio si avviò verso l’entrata.
Il cane sembrava fissarlo con odio.

mercoledì 5 ottobre 2011

L'UOMO DIETRO LA TELECAMERA.

Capitolo 11.
La Versione di Nick.

Matteo Sesti chiuso da ore dentro al furgone muore di caldo; i monitor davanti a lui continuano a mandargli immagini statiche. La Gatto-Borghi sembra volersi prendere gioco degli uomini.
“Visto ? Fino ad un istante fa era tutto a posto, poi tutte le telecamere sembra si siano messe d’accordo : e adesso riceviamo il nulla!”
Matteo non risponde, Matteo detesta il suo lavoro così come odia il suo collega. Odia le fottute telecamere e odia perfino Santonastaso che lo obbliga a passare le ore chiuso dentro quel maledetto furgone a registrare il nulla. Il “vecchio” sembra fissato con quel rudere di Villa , sono settimane che Matteo è costretto ad ascoltare gli sproloqui di Santonastaso sulla casa.
Da fuori giungono voci: Matteo riconosce tra le altre i toni gracchianti del suo capo e quelle di Daniele, il ragazzo che fino a qualche secondo prima era a soffrire con lui dentro il Vanette.

"Quello che mi hai raccontato è interessante Daniele,ma non ci è molto utile a meno che non ci sia dell'altro..."
“Si,ho preferito tenere questo particolare per ultimo Santonastaso”.
“Secondo alcuni estratti del diario di Luigi Verzeni,nelle cantine era situato un altare sormontato da una specie di croce nera,dico una specie perché in base a quello che ha scritto Luigi la forma era simile ma non del tutto uguale”

Matteo Sesti esce a fumare una sigaretta, al collega rivolge nemmeno una parola né del resto il collega si aspetta di riceverne da lui.
-“Lavoro del cazzo!”- Bofonchia il giovane mentre cerca le “cicche".
Il caldo continua ad avvolgerlo, sembra un sudario; lo circonda , lo penetra.
Santonastaso e Daniele continuano a parlotare con Shlomo e le persone uscite dalla Gatto-Borghi; il giovane li osserva attentamente : a loro modo sembrano tutti sopravvissuti
Soprattutto quello che chiamano Stefano: c’è qualcosa in lui che spaventa il ragazzo, anzi qualcosa “attorno a lui” con l’aria che sembra muoversi in maniera diversa rispetto agli altri.
“ Che cazzo aspetteranno poi? Una bella Ruspa e risolviamo il problema in cinque secondi..!” Bofonchia il giovane e istintivamente alza gli occhi verso la struttura della Casa.
Quello che l stupisce è il silenzio. Nessun rumore; nessun gracidare di Rane,nessun uccello che ha fatto il nido sugli alberi scheletrici.
A parte loro non sembra esserci alcun segno di vita attorno alla Villa. Nemmeno le Zanzare.
Insospettito Matteo Sesti volge lo sguardo verso le finestre della costruzione…e per un attimo, solo per un unico attimo gli sembra di scorgere delle figure affacciate alle finestre: figure di bambini; figure di donne con capelli neri e con una mano sola. Perfino una donna vestita come le bambinaie delle favole.
E tutti quanti sembrano salutare lui.
E in quell’istante tutto cambia per Matteo…

* * * * *

Thomas Craveri si sveglia improvvisamente, la mano languidamente cerca il corpo di Nadia, quasi come se si volesse accertare che la ragazza stia ancora sdraiata vicino a lui. Nadia ha cinque anni più di lui ed è leggermente paffutella, ma a Thomas piace.
E poi sarà sempre per lui la ragazza con cui ha perso la verginità.
Eppure qualcosa non va al tatto: Nadia sembra fragile; quasi marcia adesso. Thomas accende la luce per guardare meglio.
E urla.
Thomas Craveri dopo cinque minuti si getterà dal balcone di casa sua, nessuno ne parlerà a parte qualche svogliato trafiletto sui quotidiani locali. Interrogata dalla polizia una sconvolta Nadia non saprà dare risposte.
Thomas e Matteo sono lontani parenti, tanto lontani da non sapere nemmeno di esserlo.
* * * * *

Alla Villa Matteo, affascinato continua ad osservare le figure, adesso la donna con i capelli neri non è più alla finestra ma vicino all’uomo chiamato Stefano, quasi come se lo sorvegliasse.
E Matteo capisce che Stefano è cosciente della presenza della donna.
La donna con i capelli neri sembra fare un divertito occhiolino al giovane.

* * * * *
Annalisa Sesti si scuote dal torpore pomeridiano , la piccola Agnese piange affamata.
Alla ragazza sembra che la sua vera vita sai cominciata solo quando è nata la sua neonata.
Annalisa prende in braccio Agnese per nutrirla.
Ma mentre lo fa, qualcosa cambia attorno a lei…
Anche Annalisa urlerà inorridita.
Solo il ritorno anticipato del marito dal lavoro impedirà ad Annalisa di annegare la propria figlia nella vasca.
I giornali l’indomani parleranno di stress, di depressione post parto, ma nessuno saprà mai la verità.
Annalisa chiusa in una struttura privata non parlerà mai più per il resto della sua vita.
Agnese sopravviverà, si sposerà tra anni ed avrà una vita lunga e felice.
Ma per tutto il resto di questa sua vita felice Agnese avrà incubi su strane case che non riuscirà mai a spiegare.
* * * * *
Il cellulare di Matteo sembra impazzito, gli giungono chiamate, squilli; sms. Ognuno lo avverte della strana morte di un congiunto. Perfino suo padre sembra aver avuto un infarto .
La donna dai capelli neri lo indica:
“IL PROSSIMO SARAI TU!” Sembra volergli dire.

Santonastaso non troverà più Matteo,nessuno gli saprà dire altro se non che il giovane approfittando del suo Pass si è allontanato.
Matteo mentre fugge realizza che non in un certo senso, non si fermerà mai più. Sarà sempre un uomo in fuga.
Anche da sé stesso.
Solo una volta quando penserà di essere al sicuro scenderà dalla macchina. Solo un istante.
Solo per notare una decina di gatti che sembrano dirigersi nella direzione opposta.
Verso la Villa.
I gatti miagolano spaventati.
Come tanti neonati che piangono.

CAPITOLO 11.
SBS Primo livello Segreto.
La versione di Nick.

Fine.

domenica 2 ottobre 2011

Capitolo 5 - Gioco Infinito

Il rumore gli era ormai abituale.
Un picchettio leggero, simile al suono di una pioggia autunnale.
E leggeri squittii, come di pulcini implumi dimenticati in un cassetto.
Si erano svegliati, erano svegli.
La Casa si è svegliata.
A fatica si alzò a sedere sul letto e lentamente fece scivolare i piedi fino alle pantofole, come sempre ben allineate sul tappetino, reso scuro dal tempo e dai lavaggi.
Di fronte a lei il grande specchio che il tempo aveva appannato e ombreggiato. Il suo viso nel riflesso della luce poteva sembrare ancora giovane. Sorrise per un istante, come se quella mattina gli avesse voluto regalare un'illusione.
Si alzò in piedi e arrivò fino all'armadio. Girò due volte la chiave dell'ultima sezione, quella che teneva sempre chiusa.
Una luce delicata salì dalla piccola casa di bambole. Le luci della minuscola sala da ballo erano accese. Il riflesso la illuminava dal basso, accarezzando le rughe e i tanti segni lasciati dall'età. Quanti anni aveva? Non lo sapeva. Da quando era divenuta la custode della Casa, lei, Carla Adelaide Cristina – Adele per la mai abbastanza rimpianta Caterina Borghi e Adelaide per chiunque altro – era l'ultima balia degli ultimi, eterni bambini. Adelaide, la tata, la governante, il nome e il destino della vecchia casa.
Era sopravvissuta senza sapere perché a tutto ciò che la Casa aveva vissuto. E con lei era sopravvissuta la casa delle bambole che aveva ricevuto quasi per scherzo da Caterina, tanto tempo prima.
Ma qualcosa in lei si era rotto, da qualche tempo.
Aveva...
L'aveva fatto.
E, come diceva il piccolo rosso,«L'hai fatto e non si può più cambiare».
Aveva immaginato che quelle chiamate avrebbero richiamato l'attenzione su di loro e nel contempo risvegliato loro, tutte le creature che il tempo e la muffa avevano evocato dal non-mondo, dall'Oltre, dal livello più profondo degli incubi dell'intera città.
La Casa sarebbe finita. E con essa sarebbe finita anche la sua storia.
Era stato un suicidio? Scosse la testa: non era questo. Ma lei era stanca, disperatamente stanca di seguire gli ultimi tre bimbi, morti migliaia di volte e ogni volta ricacciati indietro, a ripetere ancora una volta la loro ultima rappresentazione.
Sollevò lentamente, senza rumore, il tetto della casa e lo posò accanto a sé. Tolse le piccole stanze dell'ultimo piano e le dispose attentamente sul letto dietro di lei. La sala da ballo era aperta sotto di lei. Le tre piccole forme dei bambini e un estraneo, una piccola, sottile silhouette senza viso né lineamenti. Si chinò cercando di afferrare le loro parole, anche se immaginava che cosa stessero ripetendo i bimbi. Una stupida, irritante filastrocca, la stessa che cantavano ogni volta e che era diventato un disperato urlo di dolore quando l'incendio era arrivato nella stanza, un pomeriggio di un secolo e più prima.
Dietro i bambini, incurvato sul pavimento, invisibile a tutti, un Quasi.
Quasi mostro, quasi creatura, quasi tutto ciò di orribile e raccapricciante possa nascere in una mente. Era un figlio del non-mondo, senza nome né sostanza. «Quasi» era stato coniato da lei molto tempo prima, quando quegli esseri senza forma, ciecamente affamati di realtà ma incapaci di superare lo spazio maledetto della Casa, erano poco a poco sorti dalla polvere e dalla muffa.
La presenza del Quasi l'allarmò. I bambini dovevano aver imparato a comandarlo, o forse lui aveva imparato a seguirli, risvegliandosi a ogni loro risveglio, levandosi silenzioso da qualche angolo dimenticato.
Quasi stava crescendo mentre i bambini continuavano il loro gioco.
«Non troveranno la rima finale. Non possono trovarla. Devono continuare a ripetere il gioco senza poterlo terminare». Ciò che era avvenuto quel lontano, dimenticato pomeriggio.
In altri tempi quel pensiero la paralizzava, facendola singhiozzare come una povera demente. Ora era diventata più forte – o forse soltanto più vecchia e insensibile – e rimase per qualche istante immobile a considerare le piccole creature e i rapidi, letali movimenti di cristallo del Quasi.
Una piccola, meravigliosa casa delle bambole. Ciò che da bambina aveva sognato mille volte.

Si mosse lentamente, vestendosi a fatica.
Uscì senza preoccuparsi di chiudere la porta alle sue spalle.
Mise la mano in tasca e strinse i suoi tre tesori: una mollettina con una farfalla, un bottoncino e una medaglietta.
Le sembrò che il cuore perdesse un colpo, ma non si arrese.
Passo dopo passo, cominciò a sentirsi meglio, le forze le stavano tornando.
Il respiro divenne regolare.
Ora camminava perfettamente eretta e ringiovaniva mano mano che si avvicinava alla villa.
Quando attraversò il cancelletto posteriore, quello vicino alla capannina degli attrezzi, i suoi capelli erano di un intenso color mogano e non aveva neanche una ruga sul viso di porcellana.
Non si curò della polizia che era nel giardino.
Fissò la finestra della sala da ballo.
Piccole pesti è arrivata la tata. I suoi occhi d'argento brillarono. E' l'ora della passeggiata . Sapete che non fa bene stare tutto il giorno chiusi in casa.
Vedrete quante belle cose si possono fare all'aperto.

giovedì 29 settembre 2011

Capitolo 6 - Balliamo?

La vedo, con i miei occhi lattiginosi vedo la ragazza alzarsi; la vedo andarsene verso la sala da ballo...

E quel coglione del suo ragazzo (ah, ancora per poco, perdio! Ancora per poco "coglione"! E pure "ragazzo", perdio!) che prende in mano nervosamente il cellulare... Che coglione, Cristo santo! Cosa vuole farci col cellulare nella Casa, eh? Mica pensa di usarlo per telefonare, eh?

L'altro gran coglione invece e' quasi commovente nella suo patetico timore, ma toh, guardalo adesso!
Sembra quasi che -concentrandosi su chissa' cosa- abbia trovato un minimo di consapevolezza e di coraggio... Sono quasi impressionato!

Guardalo la', il fidanzato abbandonato, come riprende pure lui colore e orgoglio. E -cazzo!- ascolta come si rivolge al suo patetico amico:
-Senti, io vado a cercala... Non vorrei che si mettesse nei guai.-
Nooo, gran coglione! Ma che vai a pensare? La tua donna nei guai? Ma scherzi? A quest'ora sara' gia' bell'e che morta, idiota! "Nei guai"... Ma Cristo santo cosa mi tocca sentire!

E l'altro gran coglione? Continua a dar prova della sua immaturita', girando il coltello nella piaga! Sentitelo, perdio!:
-Neanche un minuto senza di lei, eh?-
Ecco, ora vedrai si prendono a schiaffi...

No... peccato...

Il gran coglione sta controllando qualcosa nel suo assurdo marsupio, poi i due si incamminano per il corridoio senza fine della Casa. Quella che e' diventata la MIA Casa.

Vediamo quando capiranno di essere perduti, su!

E nel frattempo seguiamoli, i due coglioni.
Seguiamoli, mentre se ne vanno -guardinghi come Navy Seals- per il corridoio completamente nero di buio e di muffa; mentre cercano -tapini!- di arrivare chissa' dove.
Alla ricerca della squinzia che a quest'ora e' cibo per vermi!

Oh, guardali adesso, i due! Si, pare abbiano iniziato a intuire qualcosa!. Senti cosa dicono, i due?
-Non capisco...-
-Cosa?-
-Il corridoio con le finestre che fine ha fatto?-
L'ha mangiato il babau, il corridoio, no? Ma che cazzo di idioti... Manco c'e' gusto con questi qua!
-Un poco più avanti?-
-Avanti quanto? Sembra che stiamo sempre nello stesso posto non te ne sei accorto?-
Hihihihihi... Pero' devo stare attento, altrimenti mi scoprono subito, e il divertimento finisce!
Shhh, su! Silenzio, ora!
Zitti, che il gran coglione ha sentito qualcosa!
Su, dietro di me, svelti! E silenzio, perdio!
...
Cosa cazzo ha detto, ora? Cosa e' un "ciuski"?
E cazzo c'entra l'energia solare, quaggiu'?
Aaahhhh! E' una bella lampadona!
Hanno intenzione di fare un bel po' di luce! Bene, avviciniamoci, su!

Il gran coglione ha detto all'altro che gli dara' il via per accendere la torcia.
Pare che si sia accorto davvero di noi... Beh, bravo; e buone orecchie, dopo tutto.

Andiamo, su. Piano ma decisi, eh?
-ADESSO VAI!-
Cazzo, complimenti!
Gran bella luce, e gran bel disturbo ai miei occhi oramai quasi bianchi!
Ma adesso, ragazzi, giochiamo un po' sul serio, volete?

Dai, su, venite qua...

...fatevi baciare da Oberwalder!

domenica 25 settembre 2011

Il Primo Livello Segreto è Aperto

Bene - il Round Robin ha sedimentato abbastanza.
È ora di aprire i Livelli Segreti.
Come nei videogiochi della migliore tradizione, l'essere arrivati in fondo garantisce ai giocatori l'accesso ad una serie di extra.
Nuovi elementi del gioco.
Giochi nel gioco.
Più opzioni, più divertimento.

Il Primo Livello Segreto si intitola ....

domenica 11 settembre 2011

Capitolo 23 - Muffa


Alzo il braccio sottile di metallo cromato, lo ruoto verso il piatto e l’abbasso fino a che la puntina non tocca il disco che gira, incanalandosi. The Ink Spots, etichetta arancione, preceduta dai suoni gracchianti sputati fuori dalle casse marroni. Bastano le prime note… I don’t want to set the world on fire.
Lei è lì, seduta al tavolo al centro della stanza, muove la testa a tempo, fingendo un ritmo che non è suo. Assaporando la canzone, come se la capisse davvero.
Rumori vecchi di una vecchia casa, abitata dal tempo. Sono quelle sfumature a mancarmi, qui dentro, racconta. I ricordi sparsi ovunque, sulle pareti, sui mobili, come schizzi si sangue lavati via, che nessuno vede, ma che ci sono… Una casa possiede molte anime.
È un ambiente caldo, come un grembo materno. Come la luce del mattino che filtra dalle tapparelle.
Il vestitino è turchese, testa coi riccioli d’oro che asseconda la melodia, gambette che oscillano vispe, avanti e indietro, sfiorando con le scarpette nere laccate la testa di Bell, accucciato lì sotto. Con un pastello verde, Elga colora le sagome su un album da disegno.
«È stato allora che è arrivato Goldrake?» chiede.
Mi avvicino. Lei si gira sorridente, ha i denti piccoli.
Le sfioro il naso con la punta dell’indice. «No. Lo sai bene che non è arrivato Goldrake. Goldrake non esiste.»
«Ma quel monaco sì. E voleva prendermi. Voleva prenderci tutti, farci del male»
«Non è successo. E io ti ho portato qui dentro, ricordi?» dico, poggiando il palmo della mano sullo stomaco.
«E poi siamo arrivati qui. Insieme.»
«Non tornerà più, vero?» fa con la sua vocina.
Lo vedo ancora, Shlomo, che tenta di afferrarmi, per impedirmi di raggiungerlo. Vedo il braccio della creatura che afferra il suo. Glielo strappa che ancora stringe l’idolo tra le mani, insieme al busto, in un’onda di sangue e poltiglia. A cascata. E poi i capelli, la chioma dei nervi della sua spina dorsale recisa. Per un attimo ho creduto di scorgere un cespuglio di fibre ottiche…
La creatura si accascia poco dopo, ricoperta di uno stormo di uccelli arrivati per cibarsene. E accolti col lanciafiamme.
«Non tornerà.» dico.
Sul foglio di carta, le facce della famiglia nucleare sfoggiano sorrisi da clown, volti e arti di colore verde scuro, come la muffa.
Bell mugugna sotto il tavolo.
Le faccio una carezza sulla testa. Elga, mia sorella. È morta nel 1984. Aveva quattro anni.


La ragazza arriva dal corridoio, sistemandosi i capelli scuri con una forcina. Indossa una mia camicia e nient’altro.
«Parlavi con qualcuno?» domanda, sedendosi di fronte a Elga. E ancora: «C’è un po’ di caffè?»
Poi si dà una grattata sotto il colletto, tira fuori le dita, le osserva e impreca: «Cazzo, ho un fungo!»
Mi dirigo verso l’angolo cucina a preparare. Prendo la macchinetta dallo stipetto pensile. Da quello accanto, il vasetto del caffè.
«Ma davvero ti piace questa musica qua?» dice sciogliendo i capelli e ricominciando: «Sono cinquecento euro per la notte, ricordi?»
Annuisco. Sistemo la macchinetta sul fornello e l’accendo.
«Alla prossima facciamo da me.» riprende lei. «Questa casa la odio. Piccola e fatta male. Senza offesa, eh. Due stanze, un bagnetto e quel corridoio con quella porta che affaccia sulla cantina… È tua?»
«Sì. E non è così male. Crescerà, dagli tempo…»
Lei solleva le sopracciglia e abbozza un sorriso.
«Se lo dici tu.»
Alle sue spalle, Elga si infila i pollici nelle orecchie, sventola le dita, corruga le sopracciglia e tira fuori la lingua. Poi sgambetta nel corridoio, e di lì in cantina. Bell le va dietro, caracollando.
«Vado a prenderti i soldi.»
In camera da letto, preparo le banconote e stacco un sacco per l’immondizia nero, robusto, dal rotolo nel cassetto del comò. Lo infilo alla meglio nella tasca posteriore dei jeans. Mi guardo allo specchio. La piaga sullo zigomo ha ripreso a sanguinare. Capita tutte le volte.
«Spero non l’abbia pagata tanto. Secondo me t’hanno fregato.» dice la ragazza dall’altra stanza.
Torno indietro, lanciando le banconote verdi su tavolo, davanti a lei.
Questa le afferra, le conta, poi si affretta a rialzarsi: «Senti, non credo di avere tempo per il caffè. Grazie lo stesso. Ora mi vesto e vado via in un lampo. Alla prossima, ok?»
«D’accordo.»
Mi bacia sulla guancia destra, sporcandosi le labbra di sangue. Sorride.
Quando mi dà le spalle prendo il sacchetto, lo stendo, glielo passo veloce davanti al viso e tiro, trascinandola giù con me.
Ce ne stiamo stesi entrambi, io sotto di lei, fino a quando non la smette di sgambettare, picchiando le assi del pavimento coi talloni fino a sbucciarseli, e la mano che tenta di graffiarmi si adagia di lato, immobile.
Elga si affaccia alla porta: «Ti vuoi muovere, Hans?»


Ogni cadavere è diverso. Dall’addome squarciato della puttana è venuto fuori prima una palla di carne rossastra e lucida, poi il fetore.
Bell ci ha messo il muso sopra. Per cacciarlo è stata sufficiente una pedata. S’è rintanato in un angolo della cantina, sotto alcuni scaffali, muso a terra. Ci osserva. Ogni tanto si lamenta.
Io ed Elga affondiamo le mani e tiriano fuori gli intestini e il resto, imbrattandoci fino ai gomiti. Taglio dei tranci con un coltellaccio e insieme, accovacciati, spalmiamo carne, sangue, viscere e vita sulla superficie nera dell’uovo. Assorbe ogni cosa e torna a essere liscia e fredda. Opaca. Su di esso non si riflette la luce.
Elga ridacchia. S’è passata il braccio sulla fronte per detergersi il sudore. Ora è rossa.
Bell, dall’altra parte, si lecca i baffi incrostati di sporco.


Sotto il piccolo portico. Mi accendo una sigaretta. Faccio uscire il fumo dal moncone che è il mio naso. All’inizio pizzicava. Ora è inerte.
Dicono che io sia bellissimo. Lo dicono tutte le donne con cui sono stato.
Tossisco. Sputo. Insieme al catarro, per terra, c’è la muffa.
Tutt’intorno, le montagne stanno per addormentarsi, dietro una coltre di nebbia.