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giovedì 30 giugno 2011

Capitolo 9 - Come Dio Comanda

1

Le porte si aprirono senza far rumore e la luce tenue del corridoio si sposò con quella fredda dell'ascensore.
Don Simone si sistemò la talare – più per abitudine che per vera necessità –, strinse il crocifisso d'argento che aveva al collo e se lo portò alle labbra, sfiorandolo con un bacio devoto. Fece un passo e si girò sulla propria sinistra.
Suor Erminei lo fissava con gli occhi spenti da un velo di lacrime, buttata su di una delle sedie verdi appoggiate al muro del corridoio, come se nessuna energia – nemmeno quella della fede – riuscisse più a sorreggerla.
«Ci sta lasciando», mormorò, ripetendo più e più volte il segno della croce e dando la netta impressione al sacerdote di non riuscire a fermarsi.
Il prete aggrottò le sopracciglia.
«Suor Ermine, contegno. Don Alberto non la vorrebbe vedere così, in preda a un isterismo da rito scaramantico. Affidiamoci e affidiamolo a Dio, come ci ha chiesto», disse brusco, imponendosi di dimenticare che la donna che aveva di fronte, prima di essere suora, era una vecchietta.
Minuscola, quasi novantenne, le rughe profonde del viso suo raccontavano ognuna una storia di missione e sacrificio, ma adesso apparivano quasi spianate del terrore della morte.
«Non deve avere paura», si sentì dirle. Come se la sua umana compassione avesse deciso di fare capolino da dentro la dura armatura in cui l'aveva racchiusa, per lavoro. E se ne sorprese, anche se nulla, né sul suo volto, né nei suoi atteggiamenti, lo lasciò trasparire­.
«Ora andiamo», aggiunse, tendendo una mano alla suora.
La donnina gliela strinse e si lasciò guidare lungo tutto il corridoio, fino a una porta di sicurezza al di sopra della quale la scritta degenza infettivi campeggiava minacciosa in caratteri maiuscoli, rossi come il sangue.
L'uomo suonò il campanello ed entrambi attesero.
Non ci volle molto perché il volto da babbo natale del dottor Enzo Bonabitacola gli comparisse davanti, con un ridicolo paio di occhiali a pinza abbarbicati alla bell'e meglio sul naso a patata.
«Simone, non ti aspettavo quasi più», disse, senza porgergli la mano, con un velato tono di rimprovero nella voce.
«Papà, ho avuto da fare, sono venuto prima che ho potuto», rispose il prete, stizzito.
«Ti offendi ancora come quando eri un ragazzino».
Questa volta, il rimbrotto era palese.
«Non mi offendo, è solo che...»
Che la ruggine tra i due era evidente. Suor Ermine fissava entrambi, stordita da quel dialogo inatteso quanto assurdo.
«Smettila di fare l'adolescente incompreso, Simone. I risultati del dottor Cipriani lasciano qualche speranza, almeno per l'anima di Don Alberto, vieni».
Credici, pensò il prete, seguendo suo padre all'interno del reparto.

Simone Bonabitacola fece del suo meglio per schivare tutte le cartelle cliniche che ingombravano l'ufficio del dottor Cipriani. Ce n'erano dovunque, sul pavimento – sparse o ordinate in pile pencolanti – sugli scaffali – sia dentro che facevano capolino da ogni cassetto, che sopra, anche qui sovrapposte a sfidare la legge di gravità – sulla scrivania e perfino sul davanzale della finestra, fuori. Non c'era alcuna traccia di simboli sacri, né cristiani né di altre religioni e questo, stranamente, mise l'uomo a proprio agio.
Gli occhi del medico, due pozze rotonde di mare pugliese, lo accolsero prima ancora del suo sorriso.
«Lei è il famoso figlio del dottor Bonabitacola, suppongo?», chiese, alzandosi dalla propria poltrona e squadrandolo da capo a piedi. Don Simone si sentì come se venisse comparato cellula per cellula a un'immagine mentale immagazzinata chissà dove tra i neuroni del dottore.
Così gli venne naturale stingere appena la mano che l'altro gli aveva porto.
«Sì, credo di essere io, per quanto non mi ritenga per nulla famoso», rispose, cercando di evitare – senza riuscirci – il sarcasmo.
«Non si direbbe. Da quando mi occupo di don Alberto, Enzo non fa altro che parlarmi di lei, del suo lav...».
«Mio padre tende sempre ad alterare la realtà in senso accrescitivo in mia assenza, quanto a sminuirla in mia presenza», gli ribatté, acido, togliendo la parola di bocca al proprio interlocutore.
Il dottor Cipriani restò per qualche secondo interdetto, poi, come se nulla fosse successo, prese a parlare.
«Le analisi che suo padre mi ha chiesto di effettuare hanno dato un esito inatteso, ma plausibile».
Simone rimase in silenzio, accomodandosi sulla sedia di fronte a quella del medico e concentrando tutta la propria attenzione sull'uomo.
«Don Alberto ha una dermatofitosi molto grave, causata da quello che in gergo è conosciuto come il Fungo di Satana«», esordì, con il compiacimento dipinto sul volto.
Medici, tutti uguali, pensò il sacerdote. Mai che ammettano che la scienza non può tutto.
«Ma questa parassitosi non è tipica dell'Africa centrale?», lo incalzò.
Gli occhi di Cipriani brillarono.
«Enzo aveva ragione, lei è molto preparato anche in campo med»
Simone lo zittì con un gesto della mani. «Don Alberto non si muove da casa da anni», concluse, inappellabile.
Il medico reagì immediatamente, come se si aspettasse l'obiezione ed avesse già pronta la risposta: «Però c'è da tener presente che le spore di questo fungo sono talmente piccole da viaggiare su altri batteri e don Alberto ha sì avuto a che fare con profughi africani ultimamente, quindi, non posso escludere che la contaminazione sia avvenuta per via indiretta», controbatté, in un sol fiato.
«Spiega tutta la sintomatologia che presenta?», domandò Simone, questa volta rassegnato. Ancora una volta combattere contro uno scienziato lo stancava più che farlo contro il demonio stesso.
«Sì, c'è l'erosione dei tendini accompagnata da spasmi muscolari involontari anche molto violenti. A volte le gambe gli si piegano con angoli talmente assurdi che, le confesso, ho pensato a una possessione demoniaca».
Davvero, pensò Don Simone, alzando solo un sopracciglio, senza cambiare altro nel proprio atteggiamento.
Cipriani riprese a parlare: «Così mi sono documentato e ho scoperto che quelli che hanno sceneggiato l'Esorcista, ha presente, il film intendo, si sono ispirati giusto a questa malattia».
L'Esorcista, siamo messi bene. Ancora una volta il prete lo pensò soltanto e non si scompose in alcun modo.
Il medico concluse: «Purtroppo la diagnosi è stata tardiva, quindi la terapia con Voriconazolo non sta facendo effetto. Quindi immagino che quello che è venuto a fare non sia più rimandabile».
Non credo che la sola estrema unzione servirà a qualcosa, pensò il prete, stringendo nella tasca della talare due cose, una boccetta di vetro e una scatoletta metallica, con la base rotonda, ma schiacciata in spessore. Olio benedetto e ostia consacrata. Le uniche armi di ogni esorcista.
«Avviamoci, allora», disse, risoluto.
«Non sarà un bello spettacolo» commentò Cipriani. Era ovvio che si riferisse all'aspetto di don Alberto.
«Non lo metto in dubbio», rispose Simone, ma non era dell'aspetto che stava parlando.
Uscendo dallo studio, sbatté contro suo padre.
«Pensi che la diagnosi sia»
«Stavi origliando?», gli sussurrò, con una punta di malizia, non permettendogli di finire la frase.
Enzo non rispose, ma si fece da parte, lasciandoli passare.


2

La stanza dove don Alberto era ricoverato era accessibile solo passando attraverso una camera di equilibrio. Don Simone aveva infilato la tuta gialla anti-contaminazione e si sentiva imprigionato, impacciato in qualsiasi movimento. Il dottor Cipriani gli aveva spiegato come farsi sentire e ascoltare sia quanto sarebbe stato detto da don Alberto che la voce stessa del medico dall'interfono dentro il casco. Gli aveva anche imposto di travasare l'olio benedetto dell'ampolla in una boccetta di policarbonato e di portare in mano la particola perché non voleva che nulla di quanto fosse portato nella stanza, eccetto gli esseri umani, potesse poi uscirne senza essere incenerito a anidride carbonica e acqua.
Il prete prese un bel respiro ed entrò nella camera di equilibrio. La porta dietro di lui si chiuse con uno scatto secco e il rumore dell'aspirazione dell'aria lo fece trasalire. Davanti, all'altezza dei suoi occhi, la luce di segnalazione mutò da rossa a verde e la spessa lastra di vetro che chiudeva la stanza di degenza scivolò da un lato, lasciandolo libero di entrare.
Dentro tutto era bianco immacolato, dalle pareti al soffitto, e ricoperto da un materiale che poteva essere di natura plastica – facile da pulire, pensò di istinto Simone.
L'interno di una astronave non gli sarebbe parso diverso, visti i tubi, i pulsanti, le lucette e i monitor che circondavano il povero anziano religioso, sdraiato in un lettino con solo un telo a coprirgli l'addome, e bloccato da più di una cinghia di contenzione.
Accanto a lui, anch'essa in una tuta gialla, suor Ermine aveva le mani giunte in preghiera.
Don Alberto era scosso da spasmi talmente forti da farlo saltare nel letto. Era emaciato, il colorito già cadaverico, con gli occhi sbarrati e lattiginosi. Non dimostrava i sessantacinque anni scritti sui documenti, ma duecento.
Il suo corpo era tutto ricoperto da un reticolo nerastro rilevato che pulsava come se qualcosa lo percorresse dall'interno. In alcuni punti queste lesioni erano aperte e lasciavano uscire dei grossi filamenti grigi che si muovevano.
L'uomo tentava di sollevare le braccia e si divincolava nelle cinghie, in preda al delirio. Pronunciava parole sconnesse, qualcuna in italiano, altre in francese o spagnolo o latino, altre ancora in lingue che Don Simone non riusciva a riconoscere.
Gli si avvicinò, appoggiandogli l'ostia sulle labbra.
Il vecchio prete aprì la bocca. Era piena di ife che si contorcevano come se volessero uscire tutte insieme dal suo corpo. Espirò con violenza contro Simone, sputandogli addosso una massa di saliva annerita dalle spore.
«No! Non mi avrai!», disse lento, scandendo lettera per lettera con un timbro gutturale, animalesco. Poi richiuse la bocca in uno scatto.
«Il fungo ha intaccato il tessuto nervoso».
La voce del dottor Cipriani attraverso l'interfono nel casco lo spaventò e per poco non perse la presa sulla particola. Dentro la tuta stava grondando di sudore.
«Per questo è paranoico e vede cose che non ci sono», concluse il medico.
Simone ignorò quanto sentito e riprovò ad appoggiare la particola alle labbra dell'anziano sacerdote, ma questi, digrignando i denti, rifiutò di aprire la bocca.
Il giovane prete sbuffò. Non voleva, ma doveva. Era il suo lavoro a imporglielo.
Con una mano afferrò il volto malato per le guance, cercando di aprirgli la labbra a forza, ma venne investito una secondo fiotto di saliva, questa volta proprio sul visore della maschera.
Con la coda dell'occhio, guardando dove ancora la plastica non era sporca, si accorse che suor Ermine aveva iniziato a dondolare sulla sedia. Non la sentiva parlare, ma poteva intuire che la paura stesse scuotendo la donna nel profondo.
Non si perse d'animo.
«Non vuoi la comunione con Cristo?», domandò a don Alberto. Gli occhi dell'uomo ruotarono all'indietro, lasciando vedere solo il bianco della sclera, ma non gli rispose.
Lasciò il viso del vecchio e si pulì la maschera. Sbuffò forte a cacciar via la paura che cominciava a prendergli la bocca dello stomaco. Appoggiò l'ostia sul comodino accanto al letto e aprì il piccolo flacone in plastica, versandosi parte del contenuto su due dita, pulite.
«Per questa Santa Unzione, e la sua piissima misericordia, ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo. Amen».
Recitando la prima parte della formula, toccò la fronte di don Alberto. Come se fosse stata colpita da un acido, la pelle dell'uomo a contatto con l'olio si sciolse immediatamente, rivelando il cranio sottostante. Molte ife uscirono dai lembi smangiati della ferita, protese verso la mano di Simone, che la ritrasse appena in tempo.
«E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi. Amen», concluse, ungendogli entrambe le mani con altre gocce.
Per un attimo che gli parve eterno tutto rimase immobile.
Non riusciva a respirare, ogni suo muscolo era paralizzato, gli occhi fissi in quelli di don Alberto, che non si muoveva più.
«Bene, quello che doveva fare l'ha fatto. Esca di lì».
La voce di Cipriani non ammetteva repliche.
«Suor Ermine, anche lei». La donna non se lo fece ripetere due volte, e sparì dalla vista del prete. Il sibilo della lastra di vetro che si spostava gli confermò che era uscita.
Possibile che sia così semplice?, si domandò Simone, sconcertato. Nessuna reazione. Il vecchio era immobile, assurdamente calmo, con un sorriso sereno che gli si stava disegnando sulle labbra.
Aveva vinto? Solo grazie alla formula dell'estrema Unzione? Si era preparato per tutta la vita a uno scontro epico e si era risolto solo con due gocce di olio Santo?
Il peso della tuta anti-contaminazione lo schiacciò a terra. Sedendosi, si prese il casco tra le mani.
Possibile che la storia della Gatto-Borghi fosse solo una fandonia? Possibile che avesse ragione suo padre e non don Alberto? Possibile che avesse buttato al vento la vita, preparandosi a combattere un demonio che non c'è mai stato? Possibile...
Tutte queste domande gli premevano allo stesso tempo in testa.
Aveva dato retta alle visioni di un pazzo, come aveva sempre sostenuto suo padre – la razionalità fatta persona, lo psichiatra che la Curia aveva incaricato di seguire don Alberto dopo i fatti di vent'anni prima?
No, non era possibile. Simone era certo di aver ricevuto la chiamata, era sicuro che i racconti del vecchio prete fossero verità, che la squadra incaricata di controllare la potenza demoniaca che risiedeva nella villa esistesse davvero e che don Alberto insieme ad altri – anche sacerdoti di altri culti – ne facesse parte.
Lo sapeva.
Perché non conosceva nessuna di quelle persone, ma ogni volta che era passato davanti alla Gatto-Borghi l'aveva sentito. Il suo strisciare lento, il rumore dell'acqua, le risate dei bambini, le corse del cane, le urla della tata. E le aveva viste, nei suoi sogni, migliaia di mani mozzate tese verso di lui a chiedere aiuto.
Don Alberto lo aveva scelto come suo successore in questa lotta. Prima di scoprire che il male lo aveva contaminato. Prima di perdere il senno. Prima di... Adesso la Gatto-Borghi stava risorgendo, perché uno dei suoi guardiani stava morendo, proprio a causa di ciò che la infestava. Il male non poteva propagasi al di fuori della villa. No.
Con le lacrime che gli rigavano le guance, Simone iniziò a levarsi il casco.
«Ma cosa sta facendo!», ruggì Cipriani all'interfono, talmente forte che Simone lo sentì lo stesso.
«Simone, ti prego! Non farlo!», gli gridò anche suo padre.
Si alzò, si levò il resto della tuta, si tolse il crocifisso dal collo, lo bagnò con l'olio Santo rimasto e lo strinse in una mano, prese la particola nell'altra e, avvicinando le proprie labbra al volto di Don Alberto, parlò:
«Lo so che sei lì. So che stai facendo finta per far sì che nessuno ti disturbi. Tu vuoi propagarti e io ti faccio paura. Così stai cercando di screditarmi, vero? Ti sei spacciato per il Fungo di Satana solo per questi creduloni di scienziati»
Il sorriso sul viso di Don Alberto divenne un ghigno muto.
Ecco, adesso ne era certo. Simone prese fiato e tuonò:
«Ti ordino, Satana o qualsiasi demone tu sia, nemico della salvezza dell'uomo: riconosci la giustizia e la bontà di Dio che con giusto giudizio ha condannato la tua superbia e la tua invidia. Esci da Alberto, servo di Dio, che il Signore ha creato a sua immagine, ha arricchito dei suoi doni, ha adottato come figlio della sua misericordia», e mentre recitava la formula dell'esorcismo, appoggiò la particola sulle labbra dell'anziano sacerdote.
Un urlo scosse l'aria ferma della stanza.
Don Alberto si animò, rompendo tutte le cinghie che lo bloccavano, e con mani e gambe si strinse contro il corpo di Simone.
«Che non entri nessuno!», gridò l'uomo, accorgendosi ancora una volta del sibilo della porta di vetro. Poi riprese:
«Ti ordino, Satana o qualsiasi demone tu sia, principe di questo mondo: riconosci il potere invincibile di Gesù Cristo. Egli ti ha sconfitto nel deserto, ha trionfato su di te nell'orto degli ulivi, ti ha disarmato sulla croce e, risorgendo dal sepolcro, ha portato i tuoi trofei nel regno della luce. Vattene da questa creatura, da Alberto: che il Salvatore, nascendo tra noi, ha reso suo fratello e morendo in croce ha redento con il suo sangue».
«Non puoi, non puoi sconfiggermi», disse la voce animalesca che proveniva dalla fauci spalancate di Don Alberto, mentre un fiume in piena di ife fluiva al di fuori di essa e avvolgeva entrambi i sacerdoti.
«Io non pretendo di sconfiggerti in toto, ma solo di liberare Alberto dal quel poco di te che lo possiede!», urlò Simone, riuscendo a conficcare il proprio crocefisso nella bocca del prete, mentre premeva l'ostia contro il cranio con tutta la forza che aveva in corpo.
Il corpo del vecchio sacerdote prese fuoco all'improvviso.
Il dolore era impossibile da sopportare ma Simone non si arrese. Continuò a spingere il crocefisso nelle carni dell'altro uomo, in profondità, scavandone il collo, poi il torace, fino al cuore, con una forza che solo la fede gli conferiva, rompendo ossa che in altro modo non avrebbero mai ceduto. Poi, con un grido, spezzò il simbolo del suo credo dentro il cuore del sacerdote.
Il fuoco si spense. Di don Alberto restava solo un mucchio informe di cenere. Di Simone un corpo straziato dalle fiamme che ancora rifiutava di arrendersi alla morte.
Sentì che qualcuno lo stava sollevando.
«Simone, no», il pianto di suo padre non gli era di conforto. Aveva ancora una cosa da fare e gli restava poco tempo e solo la forza della sua fede.
«Distruggete tutto benedicendo con l'acqua santa», mormorò, con un filo di voce, spezzata dal dolore. «E portami là», ordinò.
Enzo Bonabitacola, suo malgrado, sapeva dove fosse quel là di cui suo figlio stava parlando.
«Ti prego», aggiunse Simone.
«Qui è sconfitto?», gli chiese, spazzando via con quelle tre parole anni di guerra tra la razionalità scientifica e il credo religioso, a favore di quest'ultimo.
«Sì, ma io devo andare là».
Enzo sollevò quel corpo martoriato come fosse una piuma e si avviò senza che nessuno riuscisse – volesse – fermarlo.

domenica 26 giugno 2011

Capitolo 8 – Shlomo

Santonastaso fissava la casa con odio, certo di essere ricambiato. Aveva tirato fuori dal furgone il Segno e si preparava a entrare nel cortile, incurante delle proteste del suo vice. Ci sono cose che un uomo deve fare, non importa a che costo, questo era sempre stato il suo credo. Le mani avevano cominciato a dolergli appena arrivato, quando la casa era solo una macchia in fondo alla strada. Dolore fantasma, lo chiamavano i medici. Il ricordo delle sue mani, sostituite da protesi miolettriche da molti anni, non cessava di tormentarlo. Un passo dopo l'altro si avvicinò all'ingresso mentre fitte di dolore sempre più forti minacciavano di annebbiargli la vista.

Una volta passata la soglia cambiò tutto. Villa Gatto-Borghi stava cambiando, trascinando con sé il terreno attorno.L'intera struttura sembrava ondeggiare, pervasa di un'energia imperiosa.
Sta crescendo.
Dalla strada lo stavano chiamando, voci lontane e irriconoscibili. A lui non importava, fissava la villa, la presa sul Segno mantenuta solo dalla contrazione delle sue dita artificiali.
Vieni anche tu. Vieni a giocare.
Voci infantili, sottili come aghi, gli graffiavano i timpani. Da dentro la casa arrivavano altri suoni, mormorii fumosi che non riusciva a capire. Sospesi tra la vita e la morte. Fece altri due passi verso la villa, gli girava la testa.

Dentro il furgone le telecamere mostravano tutt'altro. Un uomo malfermo sulle gambe che fissava con aria ebete una villa in pessime condizioni. In compenso i monitor dei sensori sembravano impazziti. Leonardi, il vice di Santonastaso, non aveva mai visto niente del genere. Piena fioritura, pensò, siamo a meno di quattro ore dal disastro. Schiacciò con decisione il tasto di attivazione del sistema di emergenza, non c'era altro modo per rimediare all'influenza di quella cosa.

L'impulso elettrico colpì Santonastaso alla base del cranio, una fitta di dolore assoluto. Capì immediatamente di doversi togliere d'impaccio prima di essere risucchiato dalla villa. Afferrò il Segno con entrambe le mani artificiali e lo piantò con forza nel cortile. Girò le spalle alla casa e si allontanò in fretta, sentiva di nuovo le voci.
Toglilo! Togli il cartello! Sembrava la voce di una bambinaia. Sto parlando con te giovanotto, togli subito quel cartello dal giardino!
No, non l'avrebbe fatto. L'Occhio guardava la casa ora.

Tornato all'esterno Santonastaso respirava a pieni polmoni, il fantasma del dolore che indugiava ancora sui suoi nervi. Non era il momento di fermarsi. Vide arrivare a sirene spiegate una macchina dei Carabinieri, seguita a pochi metri da una vettura dei Vigili Urbani. Evidentemente da dentro qualcuno aveva chiamato rinforzi, il suo gruppo era arrivato appena in tempo. Leonardi era sceso dal furgone, il resto della squadra stava organizzandosi per disporre gli sbarramenti da mettere sulle strade attorno.

Dalla Gazzella era sceso un tenentino dall'aria esagitata, seguito a breve da due appuntati armati di mitraglietta, dall'auto dei Vigili Urbani erano in arrivo altri tre uomini, uno con le mostrine da comandante. Il mal di testa di Santonastaso risalì una tacca sulla scala del dolore, questa era la parte più idiota del suo lavoro. Attese a piè fermo i nuovi venuti, preparando la sua tessera ufficiale.
«Fatevi da parte! C'è un'emergenza in corso.» L'ufficialetto era talmente di prima nomina da essere tirato a lucido anche dopo il tramonto. Si inchiodò alla vista del tesserino. AISI. Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna, un bel minestrone di lettere per dire servizi segreti.
«Basta così tenente. Qui comando io. È chiaro anche per lei?» La domanda era per l'ufficiale dei Vigili Urbani, un panzone che pareva un poster pro alcolismo.
«Dentro la villa è in corso un'attività che riguarda la sicurezza nazionale. Nessuno di voi è titolato a interferire. Già che ci siete aiutateci a definire un perimetro di sicurezza, voglio spazio per almeno un isolato in ogni direzione.» Santonastaso era stufo di quel copione, da troppi anni lo ripeteva.
«I vostri uomini e qualsiasi civile sia all'interno di villa Gatto-Borghi è da considerare come scomparso. Fatemi una lista, la devo comunicare a Forte Braschi. Se avete contatti via telefono con loro passateli a me. Sono stato abbastanza chiaro?»
Lo era stato. Non abbastanza da non lasciare i suoi interlocutori senza domande sulla casa. Fissavano tutti il Segno. Dentro i loro cervelli, nascosto nell'ippotalamo, ne conservavano memoria.
E ne avevano paura.

Santonastaso riuscì a fumarsi una sigaretta in pace, senz'altro da fare che aspettare. I mezzi dell'Esercito con i gruppi elettrogeni e le lampade UV erano in arrivo, Leonardi stava parlando al telefono con il sindaco e i buzzurri locali davano una mano a chiudere il perimetro. Cercò di non pensare alle spore, di relegare in un angolo buio del cervello i suoi ricordi e le voci che aveva sentito poco prima. Due carabinieri, due vigili urbani, almeno due civili. Altrettante croci da aggiungere alla lista se...

Come sempre sentì la sua presenza prima di vederlo. Era comparso alle sue spalle senza rumore, richiamato dal Segno e da legami antichi. Santonastaso si girò con calma, assumendo un'espressione di circostanza nel tentativo di non lasciar trasparire il timore che provava.
Shlomo lo fissava. Era ancora più ingobbito di come lo ricordava, avvolto in una specie di saio lurido che molto tempo prima era stato nero. Rivolgeva verso di lui le orbite vuote, lo spettro di un sorriso sul volto grinzoso. Le braccia magre sembravano faticare a reggere un grosso involto, fatto della stessa tela lercia del saio.
«Shalom Marcello. È passato molto tempo dall'ultima volta.» La voce era poco più di un sussurro.
«Bentrovato Shlomo. Questa volta siamo arrivati molto tardi. Forse troppo per chi è dentro alla casa.»
Il vecchio ruotò lentamente la testa, inquadrando nel suo sguardo vuoto villa Gatto-Borghi.
«Gehenna. La vita del mondo rovesciato trova sempre un modo per arrivare a noi.»
Lentamente si avviò verso il cancello, zoppicando e trascinandosi in maniera scomposta. Pareva potesse cascare a pezzi da un momento all'altro. Santonastaso lo fissava.

Shlomo arrivò fino all'ingresso della villa. Sentiva le voci, coglieva il mormorio del fungo dalle fondamenta al tetto. Sì, c'era ancora una possibilità.

lunedì 20 giugno 2011

Capitolo 7 - Bell

La carcassa del cane sembrava danzare attorno alla ragazza, le zampe si muovevano disarticolate, ogni tanto il cane girava la testa all'indietro, si sentiva il suono delle ossa che raschiavano contro altre ossa.
Un rumore basso, come un rantolo, aveva sostituito l'abbaiare della bestia che si dondolava e poi ricascava in avanti e con le zampe faceva un salto e ancora quel suono: nel buio scintillavano i denti e le ossa del costato che sporgevano dal ventre sfondato.
Sopra il cane una lama mandava un bagliore di tanto in tanto nel buio assoluto che avvolgeva ogni cosa.
Il cane era affamato. Quello che mangiava non gli dava soddidsfazione, gli usciva subito da sotto e si inciampava anche e scivolava nelle interiora che aveva appena masticato, e mandava quel suono gutturale, quel latrato subumano.
Stava addosso alla ragazza, le andava sopra, faceva dei colpi con l'addome, le morsicava la faccia, ma poi saltava indietro, sentiva il gusto di niente, il sapore del sangue mescolato a quella cosa.
Quella cosa nera e morbida.
Il cane saltava ancora addosso alla ragazza, provava a morderle una gamba, una mano, la ragazza era immobile, era come morta ma stava benissimo, il cane lo sapeva.
Il cane lo aveva già fatto.
Il cane girava, provava a mordere l'altra mano: non c'era l'altra mano, sempre quella cosa nera e soffice. Faceva quel suono e saltava indietro, scivolava e cadeva, gli mancavano delle zampe.
Si rialzava e tornava a correre attorno alla ragazza, sentiva che era nel centro della casa, era nelle fondamenta della casa, si sentiva bene come non era mai stato, sentiva che aveva bisogno di più zampe, che era instabile, tornava a mordere una gamba della ragazza. Faceva come per strapparla ma non tirava troppo forte, voleva solo vedere se veniva via. Ma la gamba resisteva, era troppo morbida.
La ragazza era troppo fresca.
Il cane sentiva che doveva cambiare, che stava troppo bene, che doveva avere più zampe, che gli servivano più denti.
Da un lato non voleva lasciare quel posto, adesso che ci era arrivato, dopo tutto quel tempo. Era un posto in cui stava come non era mai stato, in cui sapeva cosa sarebbe stato dopo.
Ma gli mancavano delle cose, gli servivano delle zampe, aveva bisogno di più denti.
Con un balzo saltò ancora addosso alla ragazza, rimase con le zampe sopra di lei e poi iniziò a vomitare. Gli usciva quella cosa nera e morbida, usciva come se il cane ne fosse pieno, come se stesse vomitando da uno stomaco incastonato nel centro della casa. Era un vomito doloroso, veniva a strappi, sembrava finire e poi il cane tornava a contrarsi e vomitava ancora, copriva la ragazza con quella muffa bagnata, soffice.
Alla fine fece un salto laterale, un salto impossibile, e cadde sul pavimento di legno, osso contro legno. Un suono di cose morte che cozzano. Se solo avesse avuto due zampe in più, e più denti. Non sarebbe caduto, ecco, sentiva che non sarebbe caduto, adesso che cercava di rimettersi in piedi. Due o quattro zampe in più e più denti. O un pungiglione, qualcosa con cui infilarsi dentro, qualcosa di più affilato.
La ragazza adesso aveva la faccia e il petto coperti da quella muffa nera che ondeggiava, si spostava appena, mossa da qualche corrente d'aria lontana che arrivava da chissà dove. Spuntavano le caviglie e i piedi, da sotto. Su un lato il braccio con un moncherino, anche quello già coperto dalla muffa.
Il cane si mosse lentamente, andò fino a una delle gambe della ragazza e iniziò a morderla, non veniva via niente, ma il cane lo faceva lo stesso. Il cane era affamato, lo era sempre stato.

Fu in quel momento che sentì il suo nome, quello con cui lo chiamavano i bambini. Quanto tempo era passato, quanto era che non lo chiamavano? Il cane si mise a correre, era come impazzito, si inciampò nelle gambe della ragazza e continuò a correre, si inciampò di nuovo sopra dei vestiti ammucchiati vicino alla ragazza, e scivolò, fece il suo ringhio, il suono basso con cui cercava di rispondere.
La lama sopra di lui lo seguiva, da lontano.
Sentì di nuovo il suo nome, i bambini lo stavano chiamando e riprese a correre, non gli interessava lasciare il cuore della casa, non poteva resistere al richiamo dei bambini. Correva fuori, saliva per i fori delle pareti, si piegava per entrare nelle fessure degli scantinati e poi correva ancora per la casa, per i corridoi mandava il suo suono sordo.
I bambini lo volevano ancora, il cane non si sarebbe fermato, c'era qualcosa che non ricordava, ma i bambini lo chiamavano, lui doveva correre subito quando i bambini lo chiamavano, lo aveva sempre fatto. I bambini gli davano sempre un sacco di cose da masticare, e da mangiare.
I bambini gli avevano sempre dato delle cose così strane da divorare.

Quando entrò nella stanza il cane li vide, non erano cambiati. Erano i bambini.
Quello dai capelli rossi disse solo "eccolo", non sembravano felici di vederlo.
La bambina con le trecce bionde si girò verso di lui e disse "Bell, cattivo Bell, guarda cosa hai lasciato fuori di casa".
Il cane abbassò il muso verso terra e si contrasse, come ranicchiandosi, è terrorizzato quando lo sgridano i bambini.
La bambina aveva lo sguardo severo, come se imitasse gli adulti quando sgridano i bambini. Ma i suoi occhi erano grigi, senza espressione. "Cattivo Bell, guarda cosa avevi dimenticato".
Il cane alzò il muso e vide per terra quella donna che aveva morso fuori di casa, le aveva squarciato il ventre con furia quando si era alzato dall'erba dove aveva dormito per anni. Adesso la donna era lì, buttata tra la bambina e il bambino grasso con la tuta blu. Aveva gli occhi fissi su di lui e respirava ritmicamente, il vestito sventrato e le gambe coperte di sangue.
Respirava e lo guardava fisso, senza fare altro. Era bagnata di sudore, era terrorizzata.
"L'abbiamo portata dentro" disse allora quello con i capelli rossi. "Dentro si sta meglio" aggiunse.
La bambina disse "Cattivo Bell, sei proprio un cane cattivo".
Il terzo bambino, che fino a quel momento non aveva parlato, disse che adesso Bell doveva finire il lavoro. "Bell hai cominciato e adesso devi finire. Non possiamo lasciarla in questo stato".
Bell mandò una specie di guaito, aveva così fame.
"Dài" lo invitò quello con i capelli rossi, mentre la bambina si spostò appena mettendosi a braccia conserte.
Il cane allora si alzò, a passi lentissimi si avvicinò a Eva e infilò il muso nel suo addome aperto. La donna mandò un urlo soffocato, quasi un sospiro.
Era così caldo e bagnato lì dentro.
Il cane cominciò a masticare, all'inizio lentamente, poi con frenesia crescente. Sentiva i suoi denti affondare in quel ventre morbido, non c'erano ossa, era tutta carne umida, veniva via che era un piacere. Divorava a dentate brevi e secche, poi masticava e dopo un po' sentiva quel cibo che gli scivolava dalla pancia, gli colava sulle zampe. Più mangiava più gli veniva fame e rabbia: eppure era così bello mangiare, era la cosa più bella.
"Bravo Bell" disse una voce sopra di lui, era la bambina e lui continuò a mordere. Ogni tanto sentiva un gemito, la carne gli vibrava tutto intorno al muso e questo lo faceva godere, lo faceva sentire così vivo, così dava un colpo più forte con i denti, affondava più in profondità con il muso.
"Bravo, bravo cane" gli diceva la bambina, ma non lo accarezzava perché sapeva che accarezzare un cane quando mangia, magari il cane si volta di scatto e morde anche te.
Fu in quel momento che si sentì la voce. Era proprio fuori della porta.

"Ragazzi, siete qua?"

Il cane riconobbe la voce e fece uno scatto, iniziò a contorcersi come se lo avessero accoltellato. La bambina non cambiò espressione, solo voltò la testa verso la porta e disse "no". Il bambino dai capelli rossi si guardò i mocassini come se si accorgesse solo in quel momento di averli ai piedi e mormorò a bassa voce: "oh no, Cristo, non Adelaide. Non adesso!".
Il bambino grasso si voltò verso Eva, la guardò per un secondo, e disse agli altri due: "sarebbe bene che Adelaide non la vedesse. Non ancora".
La bambina alzò le spalle. "È stato Bell a fare questo schifo, non noi". E poi aggiunse: "e poi: noi non siamo qua".

Quando Adelaide aprì la porta vide solo Eva, buttata in un angolo della stanza come un fagotto insanguinato, e Bell ai piedi della donna che guaiva con quel suono sordo.
Adelaide sospirò.
Poi scosse la testa. "Quì c'è da fare della gran pulizia" disse tra sé e sé, e sospirò di nuovo guardando il cane che non aveva proprio il coraggio di alzare il muso da terra.

giovedì 16 giugno 2011

Capitolo 6 - Regola 3

Non era passato un minuto da che Margherita si era allontanata che già Andrea iniziava ad agitarsi e a controllare il telefonino.
-Non l'avrei dovuta lasciarla andare da sola.-
Bruno rimase in silenzio, tanto starà tornando a casa, ma non era tranquillo, si sentiva come se la sua testa fosse punta da tanti minuscoli aghi, e aveva imparato a conoscere quella sensazione, lo avvertiva sempre di qualche grosso guaio in arrivo, poi la sua solita vocina inopportuna aveva parlato, l'aveva battezzata la voce del Dio del popcorn, e per la precisione un Dio di quarta categoria idiota e dispettoso. Andrea ha detto mille volte a Margherita di non lasciarle mai la mano, quando imparerà?
Stramberie, all'inferno anche la sua vocina interiore, meglio affidarsi alla saggezza delle quattro regole del maestro di ninjutsu.
Mantenere la calma.
Usare sporchi trucchi.
Fuggire come il vento.
E se tutto fallisce, don't panic.
Ma c'era di che preoccuparsi? Fino a quel momento non era successo niente, a parte un rumore al piano superiore quand'erano arrivati, ma da allora né fantasmi né visioni, nulla, tranne echi lontani, forse topi, pure a un certo punto aveva creduto di sentire la voce di suo padre chiamarlo in lontananza.
Ma era solo un'impressione, il vecchio a quell'ora stava a casa, lo sguardo perso qualche birra a fargli compagnia e la televisione accesa in sottofondo.
-Senti, io vado a cercala non vorrei che si mettesse nei guai.-
-Neanche un minuto senza di lei?-
-Vogliamo ritornare sull'argomento?-
Bruno scosse la testa, non ancora non adesso, quindi si alzò e fece qualche passo stiracchiandosi.
La caccia ai misteri per quella sera era finita, forse era meglio così.
-No hai ragione andiamo anche noi, tanto stasera è andata buca.-
-Giusto.- Disse Andrea alzandosi a sua volta. -A proposito cosa diceva di questo posto tuo padre?-
-Il mio vecchio ti torcerebbe il collo se solo sospettasse che mi hai convinto a venire qui, e non ti dico cosa ti farebbe mia madre. Andiamocene.-
Sistemò il marsupio assicurandosi di non dimenticare niente, da parte sua Andrea controllo il suo zaino poi insieme s'incamminarono.
Davanti a loro illuminato dalla luce della torce elettriche s'intravvedeva il pavimento coperto di polvere, qua e la pezzi d'intonaco, altre volte la luce mostrava i muri dove la carta da parati si era annerita per la muffa oppure si era scollata mostrando sotto, il muro sporco di colla giallastra, altre volte invece a essere illuminati erano i soffitti dove pendevano cavi elettrici a mostrare il posto dove c'erano stati dei lampadari.
Quel posto era nient'altro che un guscio vuoto, eppure non poteva fare a meno di spostare lo sguardo su ogni cosa, di fare attenzione al minimo rumore.
Quel posto lo metteva a disagio, lì c'era da tenere sempre gli occhi ben aperti senza mai chiuderli neanche per un colpo d'occhio, eppure allo stesso tempo lo attirava a se, per questo era lì', poi cercava delle risposte.
Nel corso degli anni la Gatto-Borghi era diventata la sua ossessione, da principio aveva cercato in biblioteca poi aveva chiesto informazioni un po' ovunque, ma tutte le sue ricerche non avevano portato mai a nulla, le uniche notizie raccolte parlavano dei padroni della villa, una famiglia definita “influente e ricca”, gente che se n'era andata più di mezzo secolo prima per trasferirsi altrove lasciando la villa vuota .
Zero leggende, zero dicerie, solo l'accenno alla morte di tre bambini della famiglia, e a parte quello non aveva trovato altro.
Poco per un posto dove i sigilli della polizia erano rimasti solo fino pochi anni prima, troppo poco per essere evitata da tutti, troppo troppo poco per giustificare certi silenzi.
Però qualcosa era riuscito a coglierlo lo stesso, ed era rimasto sorpreso nel sapere che riguardava proprio sua madre e suo padre, ma non aveva provato neanche a chiedere spiegazioni a loro.
Aveva già dato, anzi da lì era iniziato tutto il suo interesse.
Era ancora molto piccolo quando aveva chiesto a sua madre della villa, una domanda distratta che non ricordava come gli fosse venuta in mente, però ricordava bene cos'era successo dopo. Sua madre che un attimo prima rideva era diventata di colpo seria, aveva visto i suoi occhi azzurri spalancarsi per la sorpresa poi il dolore sulla guancia per uno schiaffo inatteso e, subito dopo, le mani di lei che lo prendevano per le spalle, lo scuotevano, la sua faccia rossa, le sue parole LEVATI DALLA TESTA QUEL POSTO! MI HAI CAPITO! GIURAMI CHE NON CI ANDRAI MAI MAI MAI...
...quella sera suo padre gli aveva fatto un lungo palloso discorso sulla responsabilità, sul non cercare guai, sul non dover andare in posti sbagliati, pericolosi... nel suo letto quella notte aveva ripensato a sua madre poi a suo padre, al leggero tremito delle sue mani, alla sua voce insolitamente bassa, agli sguardi che lanciava verso la finestra, come se si aspettasse che da li si affacciasse qualcuno o, qualcosa.
Tuo padre ha paura, gli aveva detto la vocina, non è possibile si era detto, non è possibile lui è mio padre, lui è forte, lui... quel pensiero l'aveva tenuto sveglio a lungo, rannicchiato con la testa sotto le coperte, con la paura di guardare fuori dalla finestra.
Ah, poi c'era stato quello stupido sogno.
Quand'era successo, giorni, settimane, mesi dopo?
Nel sogno si trovava dentro il parco della villa in un giorno pieno di sole, i papaveri sembravano dappertutto mentre gli alberi erano di un verde intenso poi la villa sembrava, ringiovanita, i muri appena dipinti di rosso, le imposte delle finestre integre e lucide, le rifiniture e i marmi bianchi, e all'ingresso principale il portone socchiuso con gli ottoni che brillavano.
Da lì, era uscita la bambina dai lunghi capelli neri.
L'aveva salutato agitando una mano piena di, buffi, anelli a forma di ragni e serpenti, poi avvicinandosi gli aveva detto.
-Vuoi giocare con me?-
L'aveva guardata sorpreso, aveva fatto un passo indietro poi aveva notato la sua maglietta nera, le scritte rosa stampate sopra che non riusciva a capire.
-Mi piacerebbe ma mamma e papà non vogliono che stia qui, piuttosto che significano quelle scritte sulla tua maglietta?.-
-E' un segreto, gioca con me e te lo dico. Ti va a nascondino? Scommetto che non mi trovi.-
Ridendo era sparita dentro la villa, lui invece era rimasto fuori, non sapeva che fare così si era guardato intorno e aveva notato vicino alla vicina capanna degli attrezzi tre bambini che giocavano, rassicurato si era deciso ad entrare nella villa ma proprio quando stava per varcare il portone, qualcuno, di cui aveva intravisto solo il braccio e una mano, lo aveva preso tirandolo indietro.
Stramberopoli.
Di quella mano gli era rimasto impresso un particolare, nel palmo c'era un occhio.
In seguito aveva letto che la mano era un simbolo potente di unione tra il cielo e la terra mentre la mano con l'occhio nel palmo era un simbolo era ancor più potente, vedere osservare sapere, fare agire comandare.
Stramberie di stramberopoli aveva detto allora.
Cazzate, a ripensarci ora, piuttosto... ma da quanto cazzo stavano percorrendo quel maledetto corridoio?
-Non capisco...-
-Cosa?-
-Il corridoio con le finestre che fine ha fatto?-
Dai giochiamo a nascondino...
-Un poco più avanti?-
-Avanti quanto? Sembra che stiamo sempre nello stesso posto non te ne sei accorto?-
Andrea prese il cellulare e lo guardò, poi scosse la testa. -Non abbiamo campo, comunque ti sbagli non è passato neanche un minuto da quando ci siamo messi in cammino.-
Grossi guai.
-Cazzate, saranno cinque minuti se non più che stiamo camminando.-
-Pareva anche a me, ma si vede che ci sbagliavamo... a meno che non si sia tutto ingrandito qua dentro... oh è tornato il campo, ah no, è riandato... dai andiamo.-
-Regola uno?-
-Si regola uno grande maestro.- Gli rispose Andrea.
Fecero per rimettersi in cammino, e fu allora che Bruno sentì un piccolo rumore dietro se.
Ci avrebbe potuto scommettere, quello era il rumore di un frammento di muro o di stucco che qualcuno aveva urtato facendolo rotolare via.
Non ne fu sorpreso.
Avvicino la testa all'orecchio di Andrea e continuando a camminare gli chiese -Tira fuori un ciuski-
-Quale?-
-Energia solare.-
Se il suo marsupio era la bat-cintura, lo zaino di Andrea era la tasca di Doraemon dalla quale tirare fuori quello che serviva al momento giusto, e in quel momento Energia solare faceva al caso loro.
Era costata soldi, giorni di lavoro e di prove ma alla fine il kit xenon che avevano trasformato in una lampada portabile manteneva tutto quello che prometteva. Tanta luce a volontà da trasformare la notte in giorno, la certezza di accecare chiunque di notte e, compito principale, la capacità di dissipare le paure e i fantasmi della mente col suo potente raggio luminoso. Per soli cinque secondi vero, ma era stato necessario temporizzare la durata dell'accensione per ottimizzare il consumo delle batterie, comunque cinque secondi bastavano.
-Allora grande maestro ninja Brunosan cosa facciamo?-
-Ti darò il via a voce alta, chi ci segue sarà sorpreso, si fermerà, allora accendi.-
-E se fosse Margherita?-
-Che viene dietro di noi di nascosto, con la torcia spenta per farci uno scherzo?-
-Hai ragione.-
Adesso lo sentiva, un passo lento che cercava di confondersi con i loro, bene vediamo se sei reale e chi sei.
-ADESSO VAI!-
Andrea si voltò di scatto e fece partire il fascio luminoso ma, questa volta Energia solare fallì il suo scopo principale.
A non più di cinque passi da loro una forma esile, alta, piena di chiazze come di muffa, con le braccia e le mani simili alle zampe di un grosso insetto cercava di proteggersi gli occhi dalla luce e, nel farlo emetteva rumori gutturali, ma non diceva nessuna parola.
1,2,3,4,5... poi il buio e la sua vocina ragazzo regola 3 ma prima saluta Oberwalder...

domenica 12 giugno 2011

Capitolo 5 - La sala da ballo

Erano nascosti da un paio di ore, rannicchiati in angolo di quello che doveva essere stato un armadio guardaroba. Margherita cominciava a stufarsi.
Non si erano sentiti altri rumori e dopo l'eccitante inizio, la paura aveva lasciato spazio alla noia.
-Datemi una torcia- disse brusca. Ne aveva abbastanza di perdere tempo appresso a quei due in quella casa umida e puzzolente
-Vado a fare pipì- spiegò vedendo le espressioni perplesse dei due ragazzi. La verità era che voleva svignarsela. Ovviamente non si sentiva in colpa per aver deciso di piantarli in asso.
Tutti ci guadagnavano. Lei si era tolta la curiosità di vedere come era una casa abbandonata e loro avrebbero vissuto una bella avventura notturna cercandola per tutta la casa e credendola prigioniera di chissà quale entità.
Poi lei avrebbe messo fine al gioco chiamando Andrea sul cellulare stravaccata sul divano di casa e gli avrebbe svelato dove si era nascosta.

Ora, però, doveva ritrovare la porta da dove erano entrati.
Era una porta di servizio vicino alla serra, nell'ala ovest della casa. Ricordava che avevano percorso un corridoio con delle grandi finestre. I suoi passi si susseguivano corti e svelti. Voleva essere fuori prima che i due cominciassero a cercarla. Trovò il corridoio, ma non la porta.
“La casa nasconde ma non perde” diceva sempre sua zia Maria, l' uscita doveva essere poco più avanti.
Il corridoio era illuminato dalla luce azzurrina dei lampioni che entrava dalle finestre, riusciva a vedere tutto con estrema chiarezza. Notò il pavimento lucido. Non si udivano più scricchiolii.
La casa sembra ringiovanita.
Quel pensiero inquietante la fece rabbrividire.
Ringiovanita...Margherita ma cosa vai a pensare? Probabilmente quei due imbecilli ti hanno fatto entrare dal lato più decrepito e abbandonato della casa per spaventarti.
Annusò l'aria, si sentiva un delicato profumo di fiori notturni.

Fu allora che vide la sala da ballo.
Era grande. C'erano due lampade polverose accese. All'angolo una piccola statua di Venere la fissava senza pietà con occhi privi di pupille.
Eppoi c'era un grande specchio.
Scorse la propria immagine riflessa e qualcosa la indusse ad avvicinarsi per osservarla più attentamente. Non le piacque ciò che vide. Non le piacque per niente.
Il trucco si era disfatto, i pantaloni erano tutti macchiati e il viso segnato da rughe di stanchezza. Era indecente. Senza pensare, tirò fuori il rossetto e se lo passò sulle labbra.
Poi accadde qualcosa di strano. La sala si riempì di bolle di sapone. Il rossetto le scivolò dalle mani per la sorpresa, si girò di scatto e li vide.
Tre bambini stavano giocando al centro della sala. Una bimbetta con delle treccine bionde e due bambini più grandi, uno grassottello in tuta blu e uno con dei capelli rosso fuoco e dei mocassini lucidissimi.
Margherita provò un' inspiegabile sensazione di pericolo che scomparve immediatamente e si sciolse in un sospiro di sollievo.
Anche se si trattava solo di bambini si sentiva più al sicuro che da sola.

-Ciao, io sono Lalla, giochi con me?- cinguettò la bimbetta fissandola con due grandi occhi d'argento.
Il ragazzo con i capelli rossi prese per mano la bimbetta.
-Ti ho detto mille volte di non lasciare mai la mia mano-
- Non dovreste essere a casa?- tagliò corto Margherita. Non era brava a trattare con i bambini e sperava che i modi bruschi e diretti scoraggiassero ogni loro capriccio.
-Prima devo ritrovare il bottone della camicia. Se la mamma scopre che lo ho perso mi uccide- spiegò il ragazzino con i mocassini.
-Io non trovo più la mia mollettina con la farfallina rosa- piagnucolò Lalla.
-E io ho perso la medaglietta che mi ha regalato mio padre- disse il bambino grassottello rattristandosi.
-La casa nasconde ma non perde! - li incoraggiò Margherita.
-Cercherete le vostre cose domattina con la luce del giorno, ora dobbiamo tutti tornare a casa-Ma sembrava che i bambini pensassero ad altro.
-Se non tornate a casa immediatamente chiamo la polizia- li minacciò mostrando il cellulare.
Non sembravano per nulla spaventati.
-Prima devi giocare con noi!-
-Ragazzini voglio tornare a casa e se pensate di costringermi a fare qualcosa che non voglio vi sbagliate di grosso- ruggì Margherita.
-Guardate cosa ho trovato- li interruppe Lalla mostrando il rossetto.
-Ehi tu molla quel rossetto- strillò Margherita – E' un rossetto di Dior, costa un occhio, se lo apri te lo faccio mangiare!-
Allungò la mano per strapparle il rossetto.
Fu allora che il bambino grassottello fece un passo avanti e mise un piede sull' ombra di Margherita.
-Siete davvero irritanti!- sbottò lei guardandolo.
-Non intendo giocare al gioco delle ombre -
Tuttavia cercò con lo sguardo l'ombra del bambino che l'aveva sfidata.
Il cuore le fece un balzo violentissimo di sorpresa e le sfuggi dalla gola un verso acuto come di un topo.
Quei bambini non avevano un' ombra.
Le sorrisero. Fu un sorriso orribile, senz'anima.
Sono molto cattivi pensò lei, terrorizzata. Incredibilmente cattivi.
Tentò di muoversi ma aveva le gambe e il busto paralizzati. Le sembrava di essere stretta nel pugno di King Kong .
-La tengo ferma io- disse orgogliosamente il ragazzino grassoccio piantando tutti e due i piedi sull' ombra di Margherita.
-Dai Lalla, disegnamo una filastrocca!- disse il rosso avvicinandosi allo specchio.
-Ampele Pampele salsa parè...- iniziò a recitare il bambino grassottello.
-Sono la figlia del re!- fece eco Lalla ridendo di gusto.
Il rosso guardò il riflesso di Margherita nello specchio e le disegnò con il rossetto una corona sulla testa.
Margherita sentì qualcosa sfiorarle i capelli.
-Bruscolo fruscolo raccatapè...-
-Ho un vestito color del caffè- strillò allegramente Lalla.
Il ragazzo si concentrò e corrugò la fronte. Puntò il rossetto sul collo di Margherita e traccio due righe fino ai piedi, erano due lati di un vestito triangolare.
Un artiglio invisibile si conficcò nel collo di Margherita. Sentì il dolore penetrare nella carne come un'iniezione di acido. Le colò del sangue sul petto accendendo la maglietta di un rosso vermiglio.
Quando disegnò la base, appena sotto i ginocchi di Margherita, l' artiglio la ferì ancora e dai tagli sgorgò sangue che le schizzò sui calzoni, sulle scarpe, dappertutto.
Le sfuggì un grido strangolato, avrebbe voluto scappare, ma era paralizzata.
Prima che potesse cacciare un altro urlo i ragazzi ripresero la cantilena.
-Bigoli, bagoli pan grattato...-
Margherita tentò di concentrarsi nonostante il dolore.
Margherita ricordi?Conosci anche tu questa filastrocca... Bigoli, bagoli pan grattato... cosa viene dopo?Stupida oca, concentrati... Bigoli, bagoli pan grattato...Bigoli, bagoli pan grattato...
Niente da fare.
-Ho un cuoricino di cioccolato-
Il rossetto disegnò un cuore proprio al centro del suo petto.
L'artiglio le calò addosso come la lama di un rasoio, tirò la maglietta, stracciandogliela e lasciandole righe scarlatte sui seni.
Margherita sentì la mente vacillare, aveva la testa terribilmente leggera. Il mondo le appariva e scompariva davanti agli occhi. La nausea la accecava.
Le crebbe dentro un tale senso di orrore e di sgomento che pensò che sarebbe morta di paura, ma la voce del bambino con il rossetto la colpì come una scarica elettrica.
-Bisbiglia bisconte beniglia...-
-La bocca che sa di vaniglia
Margherita iniziò a tremare violentemente quando il rossetto si avvicinò allo specchio sulle sue labbra.
Sentì il sapore denso e metallico del sangue e le labbra in fiamme.
Un filo di sangue viscoso le scivolò sul mento.
-Bisbelle bisconte binelle...-
-Due occhi dolci di caramelle-
Margherita emise un orribile grido straziato. Chiuse gli occhi aspettando che l'artiglio d'acciaio glieli cavasse.
Ma accadde qualcosa che lo fermò.
-Ragazzi sta arrivando la signorina Adelaide – gridò il grassottello - se ci trova nella sala da ballo ci mette in castigo per un mese-
Margherita spalancò gli occhi, i ragazzini erano scomparsi.
Nella sala ora c'era un odore cattivo e penetrante. Odore di mosche morte, di legni marciti, di sangue rappreso.
Si accasciò a terra.
Din don della...
sono la bimba più bella.
Poi svenne.


La signorina Adelaide arrancava ingobbita sul suo bastone. Il viso rugoso era contratto in una smorfia e respirava affannosamente. I piedi strusciavano sull'asfalto.
La casa si è risvegliata
Sapeva che prima o poi sarebbe successo per questo aveva sempre vissuto a un paio di isolati dalla villa.
Mise la mano in tasca e strinse i suoi tre tesori: una mollettina con una farfalla, un bottoncino e una medaglietta.
Le sembrò che il cuore perdesse un colpo, ma non si arrese.
Passo dopo passo, cominciò a sentirsi meglio, le forze le stavano tornando.
Il respiro divenne regolare.
Ora camminava perfettamente eretta e ringiovaniva mano mano che si avvicinava alla villa.
Quando attraversò il cancelletto posteriore, quello vicino alla capannina degli attrezzi, i suoi capelli erano di un intenso color mogano e non aveva neanche una ruga sul viso di porcellana.
Non si curò della polizia che era nel giardino.
Fissò la finestra della sala da ballo.
Piccole pesti è arrivata la tata.
I suoi occhi d'argento brillarono. E' l'ora della passeggiata . Sapete che non fa bene stare tutto il giorno chiusi in casa.
Vedrete quante belle cose si possono fare all' aperto.

mercoledì 8 giugno 2011

Capitolo 4 - La ruggine non dorme mai

Fuori
Le foto di vent'anni prima avevano di nuovo trascinato Eva nell'incubo che pensava di avere rimosso per sempre. Dal mazzo di polaroid sbiadite dal tempo era balzata fuori anche l'ultima della serie: quella di lei nuda, con lo sguardo da pazza che abbracciava se stessa, le mani arrossate da strie di sangue rappreso. Quello che si vedeva, nella foto, era solo parte di ciò che era successo anni fa. E non era nemmeno la parte più orrenda. Ora la teneva in mano, quella foto, stringendola spasmodicamente mentre cercava di richiamare Stefano. L'orrore del ricordo riacceso dalle istantanee e il terrore provocato dalla visita di quello che una volta era stato Claudio erano niente in confronto all'istinto materno che le ululava nella testa che suo figlio era in gravissimo pericolo.

Eva riuscì a premere il tasto di chiamata e il cellulare, docile, ricompose l'ultimo numero. Uno squillo, due... L'ansia le attanagliò così forte lo stomaco che la polaroid fu ridotta ad una informe palla di cartoncino.
Poi Stefano rispose: "Si, Eva. Dimmi".
Le sembrò di sentire in sottofondo altre persone parlottare. Un bene, probabilmente. Almeno, così sperava.
Eva raccontò in due parole la visita di Claudio o di ciò che una volta era stato Claudio. E Stefano riappese stizzito, dopo averle assicurato che avrebbe ritrovato Bruno e glielo avrebbe riportato sano e salvo.

La donna si fermò a riflettere, per la prima volta in quella serata. Stava affidando tutte le sue speranze di rivedere Bruno a un ubriacone in preda al panico e alla rabbia, che adesso si trovava in quella villa... E di suo figlio non aveva notizie oramai da ore: il suo cellulare rispondeva sempre "il cliente é al momento irraggiungibile. Si prega di riprovare più tardi"...
No: Eva non poteva stare lì ad aspettare che succedesse qualcosa, né poteva fidarsi di Stefano. Non dopo che non s'era fidata di lui per diciotto anni filati.
 
Era già vestita prima ancora di aver deciso coscientemente di andare anche lei laggiù; prese la borsa e le chiavi della Vespa, poi si fiondò fuori dalla porta a tutta velocità, con la spiacevole sensazione che sarebbe comunque arrivata tardi. Di lei, sulle scale, rimase solo la scia olfattiva di profumo da due soldi misto a tracce di sudore gelato. E un fugace brillio di bracciali di bigiotteria etnica nella vetrata del secondo piano.

Dentro
Se un medico avesse visitato Oberwalder, avrebbe sentenziato che il povero appuntato non era ancora "tecnicamente morto", sebbene il suo stato fosse dannatamente vicino al trapasso. Una diagnosi supportata dal polso debolissimo, dalla quasi totale assenza di respirazione, dal carnato pallido e freddo... ma soprattutto dal fatto che le mucose di occhi, naso e bocca erano completamente invase da soffice muffa nera. Ogni nistagmo, ogni debole respiro di Oberwalder muoveva le spore come spighe di un campo di grano in agosto. L'effetto era rafforzato dai numerosi agglomerati di capillari esplosi, che punteggiavano le inquietanti messi come immobili papaveri fuori stagione, insensibili alla perturbazione causata dai residui micromovimenti del moribondo.
Accanto al viso del carabiniere si muoveva quella che sembrava una punta opaca, pulita ed acuminata, sospesa a pochi centimetri dalla pelle pallida. L'altra estremità si perdeva -una trentina di centimetri piu' in su- in un informe fagotto nero e peloso. Ancora piu' su, il nulla.  

Fuori
L'arrivo di Eva a villa Gatto-Borghi passò del tutto inosservato ai pochi esseri viventi del luogo. La donna vide la carcassa del cane morto -e per poco non vomitò a quella vista e soprattutto all'odore che ne emanava, penetrante come un trapano su per le narici, fino a raggiungere il cervello e lì deflagrare come una bomba a frammentazione-, e fu sorpresa dal numero di automobili parcheggiate di fronte all'ingresso. La vista di tanti mezzi, tra cui uno con lampeggianti accesi sul tetto, la rinfrancò per un attimo, poi in lei ebbe la meglio l'inquietudine che l'aveva accompagnata sin da casa.
Non si sentiva alcun rumore, e alla luce del crepuscolo inoltrato la villa marcescente risaltava come un bubbone sifilitico sul volto d'una vecchia puttana. Eva si fece coraggio e accese la Mag-lite che teneva sempre in borsa. Il fascio saettò su cumuli di rifiuti e vetri rotti, ottenendo in risposta un singolo bagliore riflesso quando la luce lambì la porta della cantina.

Nello stesso istante la donna avvertì un movimento alle sue spalle.

"C'è qualcuno?" sussurrò Eva mentre si girava -ogni singolo pelo del suo corpo drizzato in una epilettica pantomima di pelle d'oca- con la Mag-lite in pugno.
Le rispose, in un osceno gorgoglio, il ghigno biancheggiante della carcassa canina adesso incredibilmente in piedi, che caracollava rapido verso di lei incurante della propria condizione di cadavere.
Eva fu talmente stupita dalla visione della bestia che dimenticò persino di urlare quando le zanne del cane le squarciarono l'addome. L'animale lasciò Eva sanguinante a terra e saltò, abbaiando innaturalmente, attraverso la finestra della sala da pranzo. Alla fine, era riuscito a tornare in casa.

Dentro
Oberwalder se ne stava lentamente andando. La sua residua capacità percettiva fu però stimolata dal filo di luce che filtrava tra le tavole di legno inchiodate sulla porta esterna. Il cervello del carabiniere registrò lo stimolo luminoso e inviò segnali di attivazione a tutti i sistemi motori, consapevole dell'unicità e irripetibilità dell'occasione.
Come tangibile risultato dello sforzo titanico il quasi morto Oberwalder riuscì ad emettere un lamento, impercettibile da orecchie umane ma abbastanza forte da strappare da naso e bocca ampi sbuffi di spore malate.
Le spore nere nevicarono placide sul moncone di braccio sinistro del vigile urbano Paglianti Rosa, svenuta in un lago di sangue a pochi metri dall'appuntato, e lì attecchirono subito, popolando i brandelli di carne di giovani ciuffi di muffa ed arrestando quello che sembrava un dissanguamento imminente ed ineluttabile. Pochi minuti, e laddove prima c'era il ricordo di una mano si muoveva una foresta scura fatta di filamenti sottili che oscillavano pacifici al ritmo dei flebili battiti del cuore di Rosa.

La cosa a punta si diresse aoolra decisa alla fronte del carabiniere e penetrò pelle ed ossa senza alcuno sforzo apparente. Oberwalder ebbe un rapido e involontario sussulto, poi parve raggrinzire e corrodersi dall'esterno come un tubo di ferro mangiato dalla ruggine, senza che un solo lamento uscisse dalla bocca avvizzita. La divisa d'ordinanza rimase intatta, a mano a mano sempre meno tesa su muscoli e ossa che si stavano letteralmente consumando.
Ci fu un attimo, poco prima che il fenomeno avesse termine, in cui ciò che rimaneva del corpo dell'appuntato fu come percorso da un fuoco fatuo.

Poi, pietosamente, tutto cessò.

domenica 5 giugno 2011

Capitolo 3 - Mani

Era un cane che non aveva mai visto da vicino. Doveva trattarsi di una specie di levriero, ma la carne putrefatta lo rendeva sgraziato. Un mantello bianco latte annerito dai vermi e dal sangue attorno alle fauci dilatate come spezzate da due mani possenti.
Si era ripromesso di non tornarci mai, dopo quanto era accaduto quel giorno.
Otto ragazzi fatti di marjuana e alcol pronti ad una delle tante bravate da raccontare.
Sei scomparsi. Due sopravvissuti sotto shock, Stefano ed Eva . Questo almeno riportava il rapporto della Polizia.
Scomparsi.
E nel seminterrato fatiscente e allagato da una perdita d’acqua, mani, mani ovunque. Mozzate, ammassate, marcite, imbalsamate, putrefatte, martoriate. Quelle dentro l’acqua, gonfie, annerite, spalancate nel nulla ad implorare nel silenzio un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Ma questo dal rapporto non emerse mai.
Il caso venne insabbiato, la casa sigillata alla svelta, le mani rimosse ed archiviate.
L’unica cosa certa era che non si sapeva a chi appartenessero. E su ognuna, una muffa dalla natura tossica sconosciuta a più di un laboratorio di analisi.
E non era colpa dei libri ormai rovinati, le cui pagine fluttuavano sul pelo dell’acqua torbida lasciando intravedere quel che restava dell’inchiostro stampato.

Oberwalder era svanito nel nulla, e tra Rambo e la rossa sveglia Santini doveva anche preoccuparsi di un visitatore importuno.
- Lei chi è scusi?
- Stefano Morganti. Mio figlio e altri due ragazzi sono venuti qui, ma non sono mai tornati a casa. Sono venuto a cercarli.
Gaetano intervenne con un balzo in avanti: “Non sono ammessi civili sul luogo dell’indagine”
- Lei! Tenga a bada il suo collega – disse Santini a Rosa la rossa.
- Morganti… il suo nome…mi ricorda…ma…non sarà mica il Morganti che…?
- Si sono io. La prego, mi aiuti a trovare mio figlio.
Gaetano sembrò farsi serio. Rosa era sparita in un lampo. Al suo posto, una delle sue mani con ancora il block notes stretto tra le dita insanguinate.
-Ma che cazzo succede qui? – urlò indietreggiando e puntando la scacciacani verso l’orrida prova.
La casa sembrava emettere un suono sordo, proveniente dalle tubature, dai muri e dal seminterrato.
Stefano aveva il volto stralunato, come se non dormisse un sonno decente da secoli. Armida era uscita da un angolo del sottoscala e con l’unica mano rimasta lo invitava ad avanzare con uno sguardo severo. Era la sua mente a vederla? O anche lei ormai faceva parte dell’intero disegno? Lo odiava adesso, adesso che lontana dalla vita aveva perduto ogni soffio d’anima.
Ma allora, quella notte di tanti anni prima, aveva lottato perché lui si salvasse. Nonostante credesse di aver scoperto che lui fosse il padre del bambino di Eva, visibilmente incinta.
- Morganti! – urlò Santini – E’ con noi o no? Scendiamo in questo scantinato, cerchiamoli!
All’improvviso, un sinistro ululato li fece rabbrividire.
Stefano guardò fuori, tra le fessure delle tavole alla finestra. La carcassa del cane non c’era più, e nel voltarsi scorse con la coda dell’occhio un’ombra bianca a quattro zampe aggirarsi nella stanza accanto.
La videro tutti e tre.
Cominciarono allora a camminare lentamente verso quella che doveva essere la cucina, mentre il fetore diventava insopportabile.
Gaetano trovò un vecchio telefono, ma era completamente muto.
-Questo non funziona. Dobbiamo chiamare i rinforzi!
Santini sentì un brivido lungo la schiena. Non disse nulla della telefonata che il Comando aveva ricevuto qualche momento prima. Richiamò il Comando con il cellulare, chiedendo l’intervento di altri colleghi per una situazione “difficile”, spiegando della temporanea scomparsa di due persone e della probabile presenza di tre adolescenti in vena di scherzi.
Come fosse possibile una telefonata da una casa senza una linea telefonica non sapeva spiegarselo.
Ma di quella villa aveva letto qualcosa in passato, perciò ricordava il nome di Morganti. Solo che queste cazzate alla X-Files venivano classificate nella sua mente alla voce “scherzi ben riusciti di geniali figli di papà”.

Eva prese a tremare. Non apriva quella busta da due decenni.
Quei volti avrebbe voluto tanto rivederli, ma non come in quelle foto. Perché aveva ripreso quella scatola? Dopotutto, Bruno poteva tornare sano e salvo e quello che era successo allora restare sepolto nel silenzio di quella maledetta casa.
E se avessero solo sognato?
Aprì con violenza la busta e le foto caddero spargendosi sul parquet mogano.
Un autoscatto fu la prima foto che rivide. Otto volti in otto pose sbilenche, a prendere per il culo il passante ingaggiato per immortalare il momento. Una Polaroid nuova e tecnologica, di quella che stampava le foto immediatamente in un formato quadrato.
Accarezzò col pollice la smorfia di Claudio, poi si prese la testa tra le mani. – Perdonami…
-E’ stata colpa tua, Eva.
-Claudio! – singhiozzò raggelata la donna indietreggiando.
Lui si ergeva in alto, pareva uscito da un angolo della stanza, la testa reclinata in avanti, per via del soffitto che gli toccava il collo. Eva non riusciva a staccare gli occhi da lui, ma nel contempo sgomitava all’indietro arrampicandosi sul divano.
-Le tue mani…le tue mani…non…
-Tu sai dove sono le mie mani Eva… lo SAI NO? NO? Vero che lo sai Eva? Come sai chi è il padre di
Bruno, no?
La figura si dissolse.
Adesso ne era certa. Bruno era in pericolo.

Il telefono continuava a squillargli nei pantaloni.
- Risponda Morganti! Non vorrà mica che tutti sappiano che siamo qui?
- Si Eva, dimmi.
- Claudio è stato qui – singhiozzava ancora – non l’ho sognato, non l’ho sognato, era qui era qui era qui!
- Lo so. Adesso calmati. Troveremo Bruno – chiuse il telefono con rabbia - Mi scusi, non so neanche come si chiama.
- Santini. E questo è Gaetano l’impavido esploratore, no?
- Esatto signore. Ma aveva perso il sorriso ebete, temendo per Rosa.
- Procediamo lentamente ed uniti -ordinò Santini – potrebbe esserci qualcuno qui oltre ai ragazzi.
Entrarono in cucina, mentre Gaetano illuminava con la sua torcia d’ordinanza.
La casa ricominciò a gemere.
Sembrava uno stridere sordo misto a travi spezzate e sibili disumani.
Ciò nonostante il trio non si fermò, ma un senso di irrequietezza li pervase.
La cucina sembrava un campo di battaglia. Muffa, muffa ovunque, sulle pentole incrostate, sui piatti in pezzi, sui muri, dentro ai due lavandini di ceramica.
Dal rubinetto gocciolava ancora qualcosa di verdastro, e scarafaggi morti ed una cornacchia ammuffita tappezzavano le mattonelle sporche di sangue che sembrava fresco.
I vetri infranti delle finestre completavano il dipinto sul pavimento, coprendo qualche topo e una parte del tavolo di legno gonfio di umidità.
Stefano guardò in basso per un secondo, ma quello che vide riflesso nel pezzo di vetro non era solo la sua figura.
Erano ossa lucenti di uno spirito inquieto, e due occhi che conosceva bene, privi di luce.
La stanza divenne di colpo gelida. Armida stringeva il collo di un gatto, fetide spoglie feline che si scomponevano lentamente lasciando cadere pezzi di carne fradicia.
-Sig. Morganti, venga! – ordinò Santini scorgendo il suo sguardo perduto – i ragazzi potrebbero essere di sotto.


Rosa rinvenne, risvegliata da un odore acre e da un senso di umidità sotto la spalla.
Doveva essere caduta in una pozza d’acqua. Appena tentò di muoversi per rialzarsi scivolò malamente e la fitta alla mano sinistra fu ingestibile. Svenne.
Si riprese qualche minuto dopo, impazzita dal dolore. Il polso bruciava e formicolava intorpidito come se ci fosse caduta sopra. Era buio, ma si ricordò di avere il cellulare e lo prese con la mano destra tentando di illuminare le tenebre.
Solo che la sua mano sinistra non c’era.
E quella non era acqua. Era sangue. Il suo sangue.


Santini era un uomo pratico. Nella sua mente quelle stramberie erano roba da telefilm di quart’ordine. Non gli importava di darsi una spiegazione, non era compito suo. A quello avrebbero pensato i cervelloni della scientifica. Quello che doveva fare era trovare i ragazzi, Oberwalder e Rosa la rossa.
Arrivati alla porta del seminterrato udirono un suono provenire dal piano superiore. La scalinata sembrò mutare colore e muoversi leggermente, come se le tavole di legno fossero calpestate da una presenza invisibile.
Trascurò il dettaglio. -Andiamo di sopra. Forse sono lì e aspettano solo di venir fuori per farci prendere un colpo. Benedetti ragazzi!
Stefano sentiva che quella era una pessima idea. Ma perdere Bruno allo stesso modo di…no, non poteva pensarlo. Non dopo quello che aveva visto finora.
Man mano che procedevano nel lunghissimo corridoio a sinistra, calpestando il tappeto scuro ormai lacerato in più punti, la torcia di Gaetano perdeva la carica delle pile.
-Merda – esclamò – devo tornare in macchina a prendere il ricambio pile, signore.
-Lei non si muove di qui, Gaetano – disse Santini.
-Signorsì signore, come vuole lei signore.
La puzza li avvolgeva, penetrando le narici fino a provocare in tutti e tre un senso forte di nausea.
Stefano inciampò in qualcosa di croccante, ma non era il tappeto.
Si abbassarono con la flebile luce della torcia e videro un cadavere vecchio di almeno 20 anni, mezzo rinsecchito, che si era leggermente sgretolato nel punto in cui Stefano l’aveva colpito.
Niente mano sinistra.
Il volto contratto, sfigurato da un’espressione di terrore, coperto da pochi brandelli rancidi di pelle.
Riconobbe la maglietta. Gliel’aveva regalata lui, proprio quel giorno, prima dell’avventura andata a male.
Era una maglietta tutta nera, con una sbeffeggiante scritta rosa che diceva “Barbie is a slut”. Gliel’aveva comprata qualche giorno prima al Camden Market, durante il loro weekend a Londra, per rassicurarla di non averla mai tradita, soprattutto con Eva, la ragazza del suo migliore amico Claudio. Lei aveva riso della maglietta, e l’aveva indossata subito fingendo di credergli.
Era bellissima vestita di nero, con i suoi capelli corvini, ma lucenti.
Ed ora quel che restava di Armida giaceva lì, la mano destra piena di minacciosi anelli d’argento a forma di ragni e serpenti, gli anfibi ancora ben legati ai piedi, coperti di polvere e pezzi di intonaco.
Un pendolo risuonò nel quasi buio facendoli sussultare.
Sembrava tutto uno stupido cliché di un b-movie. Ma era reale, quanto il tanfo e le ossa davanti ai loro occhi, tranne l’orologio che risuonava ancora nel silenzio beffandosi di loro con un pendolo spezzato e senza più tempo da regolare.

venerdì 3 giugno 2011

Capitolo 2 - Il Cielo Spezzato.




Per l’ennesima volta Stefano maledisse sé stesso per non aver provveduto a staccare il telefono, e adesso per punizione il trillo rabbioso dell’apparecchio lo scosse dal sonno. Imprecando l’uomo riuscì come per magia ad inciampare in tutte e tre le lattine di birra disseminate sul pavimento nel tragitto dal divano al telefono prima di arrivare ad afferrare la cornetta.
C’era una sola persona che riusciva sempre ad indovinare i momenti meno indicati per chiamarlo, e questo da che aveva memoria.
-Dimmi Eva, che c’è? Cosa è successo stavolta?.
Sentì la sua ex moglie sospirare pesantemente prima di cominciare a parlare.
-Bruno è uscito di nuovo con Andrea e sai che non mi piace che nostro figlio lo frequenti.
-E io che ci posso fare? Bruno è maggiorenne, e poi lo ha detto anche il giudice: io ho l’obbligo di mantenerlo, non di interferire nella sua vita.
Un attimo di silenzio e poi Eva riprese, con il suo pesante accento ungherese.
Nei primi mesi quell’accento gli era sembrato fantastico e sexy da morire, poi man mano che il tempo passava e le cose tra loro peggioravano lo aveva trovato sempre più disturbante.
-Stefano, li ho sentiti parlare. Andavano a Villa Gatto-Borghi: per questo ti ho chiamato.
Qualcosa si fermò dentro di Stefano . Sentì il rumore come di qualcuno che se la faceva addosso, e non era sicuro di non essere lui. Dopo tutti quegli anni succedeva di nuovo.
-Mi vesto subito. Lo vado a prendere.
Solo allora Eva sembrò rendersi conto delle condizioni del suo ex compagno.
-Stefano, ma ce la fai a guidare? Non avrai mica bevuto ancora?
- No no, sono mesi che non tocco alcool-rispose l’uomo guardando le lattine per terra, e poi con un impeto di dolcezza che stupì lui per primo- Sta tranquilla, te lo riporto indietro. Stavolta andrà tutto bene.
Abbassata la cornetta Stefano si massaggiò pesantemente le tempie. Non era il momento migliore per un dopo sbornia. Lo specchio gli restituì l’immagine dei suoi radi capelli sale e pepe, delle profonde occhiaie e del suo fisico sfatto. La stessa immagine che aveva imparato ad odiare giorno dopo giorno.
Con gesto nervoso afferrò le chiavi della macchina.
Villa Gatto- Borghi. Non di nuovo. Non dopo tutti quegli anni. Non proprio con suo figlio.
Sono fottuto, pensò l’uomo prima di uscire in strada.

Eva rimase seduta con il cellulare in mano, guardò le foto sul mobile: foto di Bruno da bambino, foto di Bruno con lei; più lontana e seminascosta dalle altre una rarissima immagine di Stefano e di lei giovani e felici.
Sospirando la donna aprì il cassetto di cui solo lei, aveva la chiave ed in silenzio cominciò a cacciar fuori tutte le foto di Villa Gatto-Borghi.


Il Vice Brigadiere Santini non era conosciuto proprio per la sua pazienza, eppure davanti a quel “Rambo dei poveri” che gli si era parato davanti dovette appellarsi a tutti gli anni di esperienza per non urlare, per non ridergli in faccia.
-Fermi tutti. Che ci fate qui? deferite le vostre generalità!
Oh,Signore, pensò Santini, l’uomo era più coglione del previsto.
-Tanto per cominciare Callaghan, si dice “fornire le generalità”, non” deferire”, punto secondo: qui le domande le faccio io; infine se continui ad agitarmi addosso quella pistola io te la strappo di mano, te la ficco nel culo e poi premo il grilletto! E forse, non necessariamente in quest’ordine. Quindi vediamo di non farci male.
-Gaetano, sono dei Carabinieri. Posa l’arma.
Solo in quel momento Santini notò la donna dai capelli rossi, un'altra “municipale” a quanto pare. Per la prima volta il il Vice Brigadiere, fu grato della comparsa di un agente donna. La nuova arrivata sembrava molto più sveglia del compagno, non che ci volesse molto comunque.
Il Rambo accortosi in ritardo della situazione, nel frattempo, aveva posato la ridicola arma e si era profuso in un ancora più ridicolo saluto militare.
-Signorsì, Signore. Eravamo sbalzati in vostro appoggio. Signore.
No, per favore, maledisse Santini, è uno scherzo. Maledisse tutti i santi di cui era a conoscenza. Due anni mancavano alla sua pensione, due anni. E poi non avrebbe avuto più a che fare con tutta quella merda.
Si limitò a sussurrare nell’orecchio del vigile donna:-Sbalzati, eh?
-Lasci perdere.-Rispose semplicemente la rossa.
-Bene, Oberwalder, vediamo di combinare qualcosa prima di andare a casa!
Ma nel punto dove prima c’era il Carabiniere scelto Oberwalder, non c’era più niente. Solo, il berretto.
Avvolto dalle ragnatele.

Stefano non ricordava quanto avesse guidato. Sapeva solo che dopo quasi vent’anni, si stava di nuovo dirigendo verso Villa Gatto-Borghi
Mancava poco ormai. E a peggiorare le cose il mal di testa cominciava a diminuire, e questo lo spaventava . Solo l’alcool riusciva a tenere lontani i ricordi.
Assieme ai suoi fantasmi.
Li avvertiva sempre quando arrivavano: un senso di fredda pesantezza che gli colpivano il diaframma.
Pregò non si trattasse di Armida.
E ovviamente era lei, seduta sul sedile del guidatore. Bella come l’aveva conosciuta venti anni prima.
-Alla fine ci stai tornando, vero?.
-Armida per favore, non è il momento. Avrai tempo un altro giorno per tormentarmi.
Nonostante la paura Stefano aveva voglia di accarezzarle i lunghi capelli neri, proprio come faceva sempre prima di fare l’amore con lei. Proprio come aveva fatto per l’ultima volta quella maledetta sera prima di entrare dentro quella fottuta villa.
-E’ per tuo figlio, vero? Ricordi che avevo la stessa età Bruno quando mi hai portato là dentro?
Era solo un gioco, dicevi.
Stefano avrebbe voluto piangere o vomitare, o entrambe le cose. Ma non poteva sottrarsi dal guardarla di nuovo. Non che non sapesse quello che sarebbe successo.
Adesso Armida lo guardava con espressione accusatrice,la bellezza totalmente scomparsa: la pelle scarnificata, il globo oculare destro vuoto. Vuoto e freddo.
La Cosa-Armida indifferente al disgusto dell’uomo,prese a mangiarsi le pellicine vicine alle unghie.
-Armida, mi dispiace. “Era” solo un gioco. Non potevo sapere quello che c’era dentro la Villa- Farfugliò l’uomo.
-Non potevi sapere? Eravamo in otto quando ci hai voluti portare in quella Villa.”Per cercare i fantasmi”, dicevi. “Solo un gioco” dicevi. E guarda: ne siete usciti in due. Non hai cercato di salvare me, hai salvato quella tua troietta ungherese del cazzo!
Stefano arrivato al cancello della Villa, fermò l’auto di colpo. Piangendo si precipitò fuori alla macchina.
-Mi dispiace! Mi dispiace!Io ci ho provato a salvarti! Non potevo sapere. Io non potevo sapere!
La cosa –Armida si grattò languidamente dentro il globo oculare,ne tirò fuori un verme e in maniera noncurante lo inghiottì.
Dopo si decise a scendere anche lei dalla macchina.
- Noi ci rivedremo ancora. Ti aspetto là dentro.
L’uomo provò ad alzare gli occhi, a sfidare una volta tanto, il suo incubo. Ma il suo sguardo incontrò il nulla. Armida com’era arrivata se n’era andata.
Solo il vento lo accolse , lo circondò, gli diede il benvenuto.
La sagoma di Villa Gatto- Borghi lo attendeva, silente come se fosse stata certa del suo ritorno un giorno o l’altro. Grande al punto da spezzare il cielo con la sua mole.
La carcassa di un cane, morto da chissà quanto, giaceva a terra.
Delle auto erano parcheggiate nel parco, una sembrava un’ auto dei carabinieri.
Stefano, in silenzio si avviò lentamente verso l’entrata.
La carcassa del cane sembrò scrutarlo con odio.

mercoledì 1 giugno 2011

Capitolo 1 - Visitatori Occasionali

“Come sarebbe a dire, non hai mai visto i Goonies?”
Margherita fece spallucce. “Io da ragazzina avevo altro da fare,” disse.Bruno rimase a guardarla, in cerca di una risposta.
Anche adesso Margherita aveva l'aria di una che aveva altro da fare – dalle Reebock immacolate al crop-top di una misura troppo stretto, passando per i pantaloni combat e l'ombelico esposto, la biondina dall'espressione annoiata aveva tutta l'aria di essere capitata lì per caso.
Bruno scosse il capo, e tornò a controllare per la terza volta di avere tutto.
Cellulare.
Macchina fotografica.
Torcia elettrica con lampada allo xenon.
Set di grimaldelli.
Kit di pronto soccorso.
Gessi colorati, confezione da sei.
Notes e matita.
“La bat-cintura è in ordine?” gli chiese Andrea, ridendo.
Da sempre, Andrea usava uno zainetto decathlon da cinque euro per portare la sua attrezzatura, mentre Bruno preferiva viaggiare leggero, e portava il minimo indispensabile in un marsupio che non mancava mai di destare l'ilarità del suo compagno d'avventure.
Che stasera, tuttavia, aveva altro a cui pensare.
“Pronta alla grande avventura, piccola?”
Margherita sfoggiò un sorriso finto, e si strusciò addosso ad Andrea.
Bruno trattenne un grugnito, e prese le chiavi della macchina, facendole tintinnare.
Era una regola non scritta – non ti porti la ragazza quando vai per edifici abbandonati.
Lo aveva detto anche Ninjalicious – la figa abbassa il livello di attenzione.
Ma non c'era stato modo di dissuadere Andrea – voleva che la sua ragazza condividesse quell'esperienza, così come aveva condiviso le vacanze e gli esami universitari.
Chissà, forse sperava che il mix di adrenalina e oscurità dell'esplorazione urbana le cancellasse quell'espressione eternamente annoiata dalla faccia.
Bruno comunque aveva dei pessimi presentimenti.
“Siete sicuri che non avremo dei guai?” chiese la bionda.
Andrea le diede una pacca sul sedere.
“Villa Gatto-Borghi è abbandonata da anni,” le disse. “Ormai non ci vanno neanche più i writer o i drogati. Non vedo che guai potremmo avere.”

C'era un'auto dei carabinieri ferma fuori Villa Gatto-Borghi.
Gaetano pestò sul freno, frullando il contenuto della Panda.
“Ehi!”
Rosa si piegò in avanti, per raccogliere il blocco e la penna che le erano cascati fra i piedi.
“A ore dieci,” disse lui.
“Eh?”
Rosa si tirò su e guardò attraverso il parabrezza, oltre l'incrocio deserto.
“Sei fortunato che non avevamo nessuno dietro...,” cominciò, ma lui tagliò corto.
“Ore dieci,” ripeté, accennando col capo.
Davanti a loro a sinistra.
“Una macchina dei carabinieri,” disse lei.
Lui annuì, riavviando la Panda e dando di sterzo come un forsennato.
“Cosa diavolo..?!” fece lei, dando una spallata alla portiera.
“Andiamo a fornire appoggio ai colleghi,” disse lui.
Lei lo guardò a bocca aperta.
“I colleghi? Quelli son carabinieri...”
La panda urtò il marciapiede basso e si fermò, storta.
Gaetano aprì la portiera e sganciò la cintura di sicurezza, continuando a fissare la sagoma nera della villa, illuminata dai lampeggiatori della macchina nera.
Poi scese lentamente, e sfoderò la scacciacani d'ordinanza.
“Io vado avanti,” le disse. “Tu coprimi...”
Con un sospiro, Rosa scese a sua volta, gettò un'occhiata all'auto dei carabinieri, e seguì Gaetano che avanzava lungo il vialetto malandato della Villa, muovendosi come un tarantolato.
A metà percorso, lui si fermo, si accoccolò ai piedi di un angelone di gesso annerito dall'aria inquinata e si voltò a guardarla, ferma in mezzo al cancello, le mani sui fianchi e l'aria rassegnata.
Le fece dei gesti che lei non riuscì a capire.
Quando finalmente lo raggiunse, “Non ti hanno insegnato ad avanzare sbalzando?” le chiese, in tono stizzito, per poi riprendere l'avanzata verso la porta d'ingresso del villone.
Lei lo guardò barcollare e ondeggiare fino sulla soglia.
Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte.
Sei settimane nella Polizia Comunale, e già le toccava dividere i turni di pattuglia con Jonny Bravo.
Provò una fitta di nostalgia per il lavoro al call center.

“Ma cos'è 'sta puzza?”
Il vice-brigadiere Santini era stato in parecchi posti schifosi nella sua carriera, ma non ricordava di aver mai sentito un puzzo come quello che allignava nell'ingresso di villa Gatto-Borghi.
“Sarà un gatto morto,” suggerì il carabiniere scelto Oberwalder.
Il sole basso filtrava attraverso le tavole inchiodate alle finestre del pian terreno, fasci di luce in cui fluttuavano milioni di granelli di polvere e che illuminavano in maniera crepuscolare l'ingresso vuoto e malandato.
“Un gatto della malora,” disse Santini, “da quanto tanfa, doveva pesare trenta chili.”
Con la mano guantata, tentò senza convinzione un interruttore della luce.
Uno schiocco ed una cascata di scintille gli fecero ritirare la mano di scatto.
“Brigadiere...!”
“Niente, niente,” fece Santini, allontanandosi dalla parete scrostata.
Un refolo di fumo nero si sollevava dall'interruttore annerito.
“Certo che tocca essere ben stronzi, eh, a lasciare la corrente attaccata in una casa vuota da anni.”
Oberwalder si affacciò a un corridoio.
“Eppure è da qui che hanno telefonato,” disse.
Santini si avvicinò allo scalone liberty che portava al piano superiore.
“Sarà,” disse, incerto.
Strisce nere di muffa davano alla carta da parati un aspetto zebrato.
Che situazione del cazzo.
Che modo del cazzo di chiudere la giornata prima di andare a cena.
“Avanti, diamo un'occhiata e vediamo se c'è qualcuno in questo posto,” disse.

In quel momento, attraverso la porta spalancata, entrò rotolando un giovanotto nerboruto con l'uniforme da vigile urbano e i capelli tagliati cortissimi.
Rotolò, si rimise in piedi e spianò una pistoletta ridicola in faccia a Santini.
Oberwalder fece correre la mano alla cintura, ma un gesto di Santini lo fermò.
Dalla porta d'ingresso fece qualche passo incerto una vigilessa coi capelli rossi, che poi si fermò, interdetta.
Nel silenzio assoluto, dalle viscere della casa si levò un cigolio basso ed orribile, che per lunghi secondi parve far vibrare il pavimento.
Poi, il silenzio.
“Gaetano,” disse la rossa, con voce stanca, “ma che cazzo stai facendo?”

Quando il cigolio finalmente tacque, Margherita si rese conto di avere le dita strette attorno al braccio di Andrea, strette tanto forte che le doleva la mano.
“Cosa è stato?” chiese, con un filo di voce.
“Non lo so,” rispose lui. “Forse le tubature dell'acqua.”
“Zitti,” disse Bruno.
Inclinò il capo da una parte. “Credo ci sia qualcuno al piano di sopra.”
Proprio quello di cui avevano bisogno.