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domenica 6 novembre 2011

Capitolo 19 - Il catalizzatore


Il treno correva sui binari, sfrecciando nel silenzioso paesaggio montano. Le Alpi, come denti appuntiti di una creatura dormiente, mangiavano il cielo, coprendo gran parte del panorama. Hans guardava fuori dal finestrino, senza registrare davvero il mondo attorno al convoglio. L’umidità gli si era infilata dentro, ma era tollerabile. La sua mente – il suo dono – era proiettata oltre le montagne, era focalizzata su quella creatura. La creatura verso cui stava andando.

La Cosa-Casa osservava con i suoi tanti occhi lo spettacolo della paura umana. Piccole formiche terrorizzate, consapevoli di essere a un passo dalla morte. Si agitavano, confusi e disperati. La Cosa-Casa avanzò, indifferente. Dall’alto vedeva che alcuni di quegli esserini si erano fermati e guardavano nella sua direzione. Indossavano vestiti pesanti, elmetti, protezioni e imbracciavano armi. Armi inutili, come la Cosa-Casa sapeva. Ma non lo sapevano loro, abituati a considerarle estensioni del proprio corpo.
La creatura avvertiva dentro quei pazzi la determinazione marziale. Sentiva quello che avevano passato in altri campi, guardava nelle loro anime le battaglie a cui avevano preso parte. Nulla in confronto a ciò che li attendeva ora.
I militari alzarono i fucili e le pistole e le mitragliatrici. Fecero fuoco tutti insieme, in sincronia perfetta. La Cosa-Casa non si fermò, mentre osservava i fiumi di proiettili sgorgare dalle canne delle armi. Diverse traiettorie terminavano sul suo corpo, tanto da sembrare prolungamenti del suo stesso essere. La Cosa-Casa in effetti inglobava e inglobava e inglobava. Tentacoli di piombo. A ogni colpo diventava più grande, sempre un pochino più grande. Ogni propaggine era nutrimento da parte di quelle armi inutili.

Le montagne si abbassarono, schiacciate dal peso del cielo. Diventarono colline sotto gli occhi di Hans. Il treno continuava la sua folle corsa, come se sapesse che qualcosa di incredibile stava succedendo nella città di destinazione. I binari laceravano il paesaggio, parevano ferite inferte da artigli di creature troppo grandi per appartenere a questa dimensione. Hans sentiva – il dono! – la forza del richiamo della creatura. Percepiva l’Idolo e Shlomo. Poteva quasi sentire la voce dell’Idolo, che lo invitava al suo destino.

Pian piano i tentacoli si assottigliarono e infine scomparvero. Mentre gli ultimi proiettili venivano inglobati nella massa di mattoni e tubature della creatura, i militari si guardarono, indecisi sul da farsi.
La Cosa-Casa sentiva che stava per arrivare anche lui, il catalizzatore. Avvertiva il suo avvicinarsi e sorrideva con le sue tante bocche. Avanzò, mentre i soldati decisero di passare agli esplosivi. La creatura avvertì le prime detonazioni a qualche centimetro di distanza da sé, ma non se ne curava nel suo lento avanzare. Granate, piccole e insignificanti. A ogni boato, il terreno vibrava, gli uomini tremavano, la Cosa-Casa avanzava, diventando ancora più grande.

La pianura si sostituì ai piccoli rilievi collinari. Hans iniziava ad avvertire la vicinanza. Stava recandosi all’appuntamento con il Fato, ma era tranquillo. Calmo come la pianura che vedeva attorno fuori dal vetro. Sapeva cosa lo aspettava ed era consapevole di tutto. Nonostante gli avvertimenti della nonna, l’uomo con il dono era conscio del suo destino. I campi assumevano di tanto in tanto colori opachi, sporchi, come se fossero vestiti di un drappo di malinconia. Un velo oscuro, il sudario del mondo.

Le granate finirono, come erano finiti i proiettili. La Cosa-Casa dentro di sé vibrava di piacere. I suoi tanti occhi osservavano i soldati, che imperterriti avevano preso in mano un lungo tubo verde. Un missile uscì dalla bocca buia di quell’arma. Il silenzio, durante il volo del missile, era carico di speranza da una parte e curiosità dall’altra. La detonazione che ne seguì fece tremare tutti, persino la Cosa-Casa. Il fumo avvolse la scena e si diradò poco a poco.
La creatura si sbilanciò appena, ma ad alcuni sembrò solo un’impressione. La Cosa-Casa non era rimasta particolarmente colpita dal missile, sembrava più stupita che danneggiata. Avanzò, intonando una canzone maledetta in una lingua sconosciuta.
I soldati più vicini non riuscirono a muoversi e allora – oh, sì, allora sì – iniziarono a sentire la vera paura dilagare dentro di loro. Quelli più distanti iniziarono a indietreggiare, stupiti, confusi e, anche se non l’avrebbero mai ammesso, terrorizzati come bambini. La creatura continuava la sua lenta marcia, avvicinandosi agli uomini immobilizzati dalle sue parole di magia. Quando quei piccoli esseri giunsero a contatto, si udì solo un debole risucchio. La creatura inglobava e inglobava e inglobava, senza sosta. Sempre più grande, a oscurare il cielo e le macerie della villa.
I militari più distanti ripiegarono disperati.

Il treno rallentò e si fermò in stazione, stridendo sulle rotaie. Hans scese zoppicando e si recò nella zona dei taxi. Aveva avuto tutto il tempo del viaggio per riflettere su di sé, sulla Casa e sull’Idolo. Ora non era più tempo per riflettere, era il tempo per scendere in campo al fianco del monaco.
Hans diede l’indirizzo al conducente e si lasciò guidare lungo le vie della città, osservandone la tranquillità e la calma. La quiete prima di arrivare in vista del quartiere della villa. In lontananza si udivano boati ed esplosioni. Il tassista fermò l’auto e fece scendere Hans, che inutilmente cercò di convincerlo a proseguire fino alla zona della villa.
Il taxi scomparve dietro la strada, lasciando Hans al proprio destino. Camminando e imprecando per le fitte di dolore, si diresse verso la villa – o meglio quello che ne restava. Giunse in vista del perimetro creato dalle forze dell’ordine in tempo per assistere alla ritirata dei poveri militari.

Shlomo lo sentì arrivare alle sue spalle. Infine il catalizzatore era giunto sul luogo. Forse esisteva ancora una speranza. Forse.
«Sono arrivato» disse Hans.

giovedì 3 novembre 2011

Capitolo 12 + Gianluca Santini


Rumori impercettibili, comuni a tutte le case di una certa età. È il linguaggio segreto dei vecchi mobili e dei muri in perenne stato di assestamento.
Solo che in questo caso era diverso.
Tra i cigolii del legno e il lievissimo ticchettio di cose minuscole che si muovevano nelle pareti, la Casa aveva emesso miriadi di invisibili spore. Qualcuno lo avrebbe definito un meccanismo di autodifesa, altri una strategia di caccia. Si trattava di entrambe le cose. Peccato solo che la natura della Casa fosse ignota a tutti. O quasi.
Sentiva i piccoli umani - così fragili e approssimativi nelle loro limitazioni biologiche - che zampettavano nei corridoi e nelle stanze. Qualcuno era già morto, fatto a pezzi con disarmante facilità dalle creature-spore emesse dall'edificio. Organismi microscopici in grado di pescare nelle primitive paure del cervello umano e di dar loro forma a livello paraelementale. Ma anche cose più grosse e tangibili.
Non pochi sciocchi che avevano studiato Villa Gatto-Borghi nel corso dei decenni si erano concessi spiegazioni confuse tra scienza e spiritualità. Paroloni senza senso compiuto che avevavo la sola funzione di arginare il terrore senza nome rappresentato dall'edificio. Molti erano morti. Altri avevano lasciato perdere. Non pochi erano impazziti. Alcuni di loro erano tornati. Ora.
Eppure certe persone erano riuscite a sentire qualcosa visitando la Casa: piccoli umani con bloc notes e penna, torce elettriche e registratori audio. Scrittori e indagatori improvvisati, alcuni avevano percepito l'Oltre della Casa. Bipedi dall'intelligenza di poco superiore alla media, ma dotati di una marcia in più rispetto agli altri. Li aveva quasi ammirati quando erano usciti dalla villa, esclamando ad alta voce le ispirazioni per i loro libri e i loro articoli. La Cosa-Casa li aveva lasciati andare: le loro opere sarebbero state spore nella mente dei lettori, attirando nuovi visitatori. Loro erano comunque distanti dalle verità della Casa.
Verità che sarebbero comunque sfuggite ancora una volta. Le capacità umane erano troppo limitate per comprendere la vera natura della Cosa-Casa. Stakari-Botri, come l'avevano ribattezzato i tripolitani, prima che gli italiani invadessero le loro terre, strappando tutto ciò che avevavo di prezioso. La bizzarria della sorte era che quel nome se l'era inventato un padre missionario, poi ucciso “per sbaglio” perché si era schierato in difesa degli arabi. Alla Cosa era piaciuto e ora pensava a se stesso in quei termini, anche se era un nome senza vero Potere.

Ai tempi la Cosa-Casa proliferava presso un minuscolo villaggio arabo dello Sciara Sciat. A dire il vero non era ancora una “casa”, bensì una sorta di obelisco fungiforme temuto e venerato dagli zotici della regione. Aveva promesso protezione dagli invasori latini ai suoi più intimi adoratori, impegno mantenuto però solo per pochi giorni, quando aveva capito che gli italiani avrebbero comunque vinto quella stupida e inutile guerra. Al che Stakari-Botri anelava già la ricca Europa, assaporandone la ricchezza di carni e menti in cui avrebbe potuto sporificare.
Il Fato era dalla sua parte, perché tra gli ufficiali italiani c'era un elemento che costituiva per lui un naturale contatto, il tenente Guidobaldo Verzeni, rampollo di una famiglia in cui più di un membro si dilettava di arti che gli stupidi umani definivano “oscure”. Era stata forse una naturale affinità a guidare il Verzeni fino alla polla in cui il monolite spugnoso attendeva il suo nuovo, inconsapevole servo. Poche spore invisibili avevano permesso al tenentino di entrare in una sorte di trance allucinatoria. Tra i cadaveri ancora freschi degli arabi e dei turchi morti in battaglia pochi metri più in là, molti dei quali orribilmente invasi da muffe scure e ripugnanti, Verzeni aveva trovato il suo Dio. Sette giorni più tardi un mercantile pagato sottobanco dal ricco ufficiale trasportava l'obelisco, sigillato in una cassa, a villa Gatto-Borghi.

La casa, che ora era parte integrante di Stakari-Botri, era un monumento all'idiozia umana, infetta dagli esperimenti bislacchi fatti dagli idioti che giocavano con fuoco senza conoscerne il pericolo. Il perfetto brodo di coltura per la creatura, precipitata su quel pianeta molti secoli fa. Ai tempi era ancora una spora, portata dal vento e dall'autocoscienza limitata. Col tempo si era plasmata, crescendo di massa e di potenza. Gli echi del mondo dei suoi simili, distrutto eoni orsono da un evento cosmico, vivevano nel suo retaggio mnemonico. Ricrearlo lì, su quella palla fangosa abitata da forme di vita primitive, era un progetto più attuabile, man mano che trascorrevano gli anni. La villa, la villa era la sua meta perfetta. Infatti Stakari-Botri aveva proliferato, spargendo spore e plasmando menti, attingendo alle superstizioni religiose comuni tra gli umani. I Verzeni si erano dimostrati dei perfetti padroni di casa, anche coloro che, a differenza di Guidobaldo, non avevano alcun interesse nello studio delle cose occulte.

Un rumore interruppe parte del flusso dei pensieri della Cosa-Casa. Le spore invisibili della creatura sondavano la villa di secondo in secondo, manifestandosi a secondo delle esigenze nelle forme più opportune. Gli intrusi aumentavano di numero. In circostanze normali sarebbe stato solo un bene, un'occasione perfetta per aumentare il brodo di coltura. Del resto la creatura stessa attirava prede, di tanto in tanto, per nutrirsi. Ma tra questi nuovi visitatori percepiva presenze che in qualche modo temeva. C'erano i maledetti impiccioni che studiavano la villa da anni. Coloro che avevano limitato la sua sporificazione con i rituali giusti, col Segno, con la Geometria delle Cose e con la scienza.
Percepì la presenza del monaco, dell'Uomo di Legge monco e quella del moribondo, che potenzialmente era colui che più rappresentava un problema. Erano venuti lì per sfidarlo? Possibile, dopo aver dimostrato loro la sua virtuale invulnaribilità? Lo avevano circoscritto nei limiti della casa già anni prima, e questo per loro era un incredibile successo. Perché tornare per tentare l'impossibile? Una parte della coscienza di Stakari-Botri capì che c'erano di mezzo quelle strane cose chiamate relazioni umane. Rapporti parentali che spingevano quelle scimmie a correre rischi immani per salvare i loro consanguinei. Qualcuno di sbagliato era entrato nella villa e gli altri stupidi bipedi erano accorsi a salvarlo.
Eppure un sussulto tanto raro quanto imprevisto della sua massa primaria, nascosta nel cuore della casa, gli fece capire che aveva paura. Spinti dalla feroce autoconservazione della prole e armati delle conoscenze proibite che il monaco studiava da anni, potevano forse causargli seri danni.
Distruggerlo?
Il pensiero lo turbò. Per eliminarlo del tutto avrebbero dovuto ricorrere ad armi di cui senz'altro non disponevano ancora.
O forse sì?
Quel dubbio minava la solida, imperturbabile determinazione della Cosa-Casa. Una vera e propria novità per la creatura fungiforme, che conosceva la paura solo in qualità di riflesso della mente scimmiesca degli umani.
Era dunque giunto il momento per porre fine a quella storia. Non era più il tempo di giocare con le spore allucinatorie e con le micotossine di media complessità a cui aveva dato vita finora. I suoi nemici più potenti si preparavano a entrare. Avrebbero trovato la morte. Si sarebbero uniti al brodo di coltura. Forse ne avrebbe lasciato vivo qualcuno, amputando le sue mani, di modo che non potesse più attingere alla Geometria delle Cose per tracciare o costruire altri Segni. Lo aveva già fatto con l'Uomo di Legge. Doveva essere un monito. Evidentemente non era bastato.
Tuttavia la Cosa-Casa si sentiva pronta. Distruggendo il monaco e il moribondo avrebbe distrutto anche il vincolo che lo confinava alla villa. Il che voleva dire tornare a sporificare il lungo e in largo.
Il tempo era maturo.
Stakari-Botri iniziò a emettere micotossine e a plasmarle. Presto, molto presto avrebbe ottenuto una vittoria che stava nell'ordine naturale del creato. Il più forte sconfigge sempre il più debole. Di certo lui non avrebbe concesso eccezioni.